“Make AHS great again”: American Horror Story – Cult (stagione 7)

È la notte più lunga degli Stati Uniti quella tra lʼ8 e il 9 novembre 2016 quando tutto il Paese, con il fiato sospeso, segue il sofferto scrutinio dei voti che determinerà lʼelezione del quarantacinquesimo Presidente. In due diversi appartamenti Ally (Sarah Paulson) guarda con trepidazione, insieme a sua moglie Ivy (Alison Pill) e a una coppia di amici, la televisione mentre Kai Anderson (Evan Peters), solo davanti alla tv, esplode in un grido di gioia allʼannuncio della vittoria di Donald Trump.

Si apre così la settima stagione di American Horror Story Cult che, per la prima volta e in modo assolutamente esplicito, affronta il tema della politica americana. Non lasciamoci, tuttavia, fuorviare da questo incipit perché Ryan Murphy non si allontana di certo da quegli archetipi che sono, fin dal 2011, alla base dellʼarchitettura narrativa dellʼintera serie.

La suggestione horror, naturalmente, rimane anche se, in questo caso, viene abbandonato (quasi) del tutto lʼelemento soprannaturale per convogliare ansie, timori e tormenti verso un reale che, spesso, sembra trascendere anche la più terribile delle fantasie e che qui si moltiplica e si amplifica attraverso gli schermi dei media le cui breaking news diventano storie nella Storia, sempre più dominata dallʼocchio (davvero imparziale?) vigile e impietoso di una telecamera.

American Horror Story

Dopo la precedente e dimenticabile stagione di Roanoke – che si autodefiniva “satirica” – American Horror Story ritorna (soprattutto nei primi episodi) a raccontare con arguzia e affilata ironia le paure più profonde del contemporaneo e lo fa con una scelta – in verità non priva di coraggio – che è la prima autentica novità: rinunciare alla Guest Star di richiamo. Dopo Jessica Lange (presente dalla prima alla quarta stagione) e Lady Gaga (special character della quinta), protagonisti della settima sono due attori tra le presenze fisse della serie: Sarah Paulson e Evan Peters. Ai due fedelissimi della premiata ditta Murphy&Falchuk spetta quindi lʼarduo compito di ridare nuova linfa a un serial che – dopo Roanoke, appunto – sembrava aver perso smalto e spettatori.

“La rivoluzione è iniziata” dice Kai guardando verso il cielo, eccitato e soddisfatto dallʼelezione di Trump e, in effetti, una tale trasformazione politica e sociale coinciderà con lʼevoluzione di questo personaggio e di quello della sua strenua antagonista Ally; tuttavia ancora una volta, come consuetudine della serie, scopriremo, nel susseguirsi degli episodi, che nulla è davvero come sembra e che sotto lʼapparenza della fragilità o della barbarie si cela, sovente sorprendentemente, ben altro.

Sulla più stretta attualità, quindi – pur rappresentando lʼimportante sottotesto della storia – vengono innestate altre, e non meno efferate, vicende che, in più occasioni, rimandano a certi episodi precedenti di American Horror Story a conferma che Murphy continua a riallacciare e a sciogliere, stagione dopo stagione, i nodi di un discorso che sembra non interrompersi mai, attraversando le differenti epoche di un universo narrativo condiviso.

American Horror Story
Proprio per una maggiore aderenza alla realtà questa stagione si fonda sulle fobie. Siano esse reali o immaginarie, determinate da un trauma personale oppure da un pericolo contingente, governano la vita dei personaggi e, di conseguenza, le loro azioni. Fin dallʼinizio assistiamo al ritorno di un grande “classico” del terrore, il clown Twisty e i suoi simili, che riportano alla memoria le gesta sanguinarie del pagliaccio già visto in Freak Show, così come le, seppur brevi, incursioni di alcune attrici (Emma Roberts, Frances Conroy e Mare Winningham) si riagganciano alle suggestioni di Asylum, Coven e Hotel.

Come dicevamo questa stagione non è priva di quei caratteri riconoscibili dellʼinquietante “creatura” di Murphy e Falchuk. Di nuovo si ripropone il tema della maternità e del femminile anche se stavolta declinato pure attraverso un femminismo dʼantan con la presenza di un personaggio come Valerie Solanas, la scrittrice attivista che, nel ʼ68, attentò alla vita di Andy Warhol.

Le donne, e non solo la protagonista Ally, hanno un ruolo preponderante in tutti gli undici episodi e molte di loro subiscono, rispetto alle puntate iniziali, una vera e propria metamorfosi che darà vita – ça va sans dire – a differenti generi di mostruosità. Se, come afferma Kai (7×10), “Il mondo non è così progressista e meraviglioso come credete che sia”, mai come oggi gli States e le donne americane devono fare i conti con un redivivo sessismo dal carattere fortemente punitivo. Anche agli uomini, comunque, non sembra andar meglio, nel lasciarsi sedurre, e nel contempo a subire, il fascino oscuro di un machismo che assurge a simbolo di una forza che, tuttavia, già nutre in sé il germe dellʼautodistruzione.


Tutto allora sembra ridursi, e non sempre consciamente, a una maschera disturbata e disturbante. Un elemento, questʼultimo, fondamentale in Cult, sia dal punto di vista narrativo (alcuni personaggi, in diverse occasioni, per motivi a dir poco inquietanti, dovranno indossarne una) che metaforico (ovvero il travestimento inteso come salvaguardia delle apparenze). Già nella sigla vediamo alcune misteriose presenze su uno sfondo scuro con il volto coperto da delle bizzarre maschere di Trump e della Clinton; attraverso queste immagini Murphy e Falchuk sembrano voler sottolineare come il (desiderio di) potere sia talvolta capace di rendere un individuo platealmente grottesco, finendo per trasformarlo in una sorta di mostro tanto risibile quanto pericoloso, soprattutto se il suo scopo è, appunto, quello di governare una nazione che, ancora oggi, non ha messo veramente a tacere la propria anima puritana e intollerante.

Sempre negli opening credits, inoltrecompaiono anche una bandiera americana macchiata di sangue e degli spaventosi clown. La tesi sembra perciò chiara: per lʼesibito sessismo e le idee tuttʼaltro che illuminate, Trump e i suoi accaniti sostenitori – come lo squilibrato Kai – assomigliano a dei sanguinari pagliacci che potrebbero portare il paese alla rovina definitiva.

La scelta del titolo Cult, dunque, che ha il duplice significato di culto e setta, risulta essere assolutamente calzante: Kai, infatti, ha un vero e proprio culto per Trump, da lui visto come una sorta di carismatico leader di una grande setta – il partito repubblicano – che, dopo aver finalmente preso il potere facendo leva soprattutto su una diffusa insoddisfazione, si prepara a “cambiare il mondo” a colpi di estremismi e promesse, in realtà, piuttosto preoccupanti. Ed è proprio un forte senso di frustrazione che rischia di diventare terreno fertile per la nascita di strane “società segrete”…

Alla luce dei temi trattati e della messa in scena di eventi tanto disturbanti quanto improbabili – come un rito orgiastico accompagnato da (pessima) musica pop – Cult sarebbe potuto facilmente scivolare nel ridicolo, ma Murphy e Falchuk, che sin dalla prima stagione, Murder House, hanno dimostrato di avere grande dimestichezza con il camp e lʼorrore più grottesco, riescono a dirigere con abilità questo coacervo di eccessi. Il merito è anche di una scrittura sorprendente, che coniuga alla perfezione tensione, puro spavento e riflessione (alcuni discorsi di Kai su temi come la paura e la manipolazione delle coscienze sembrano addirittura essere usciti dalla penna di scrittori americani contemporanei quali Paul Auster, Cormac McCarthy e Don DeLillo).

Non mancano, tuttavia, difetti e sbavature. Soprattutto nei primi episodi, ad esempio, il personaggio di Ally è fin troppo incapace di reagire alle proprie, continue disavventure, tanto da risultare ben presto monotono e privo di sfumature. In questo modo, la sua debole presenza finisce involontariamente per far risaltare ancora di più lʼagghiacciante carisma delle terribili creature – reali o immaginarie – che la perseguitano. Sarah Paulson, inoltre, pur avendo dimostrato di essere unʼattrice eccellente, in grado di trasformarsi in maniera radicale da una stagione allʼaltra, è sprovvista del carisma di Jessica Lange, la quale, con le sue interpretazioni, riusciva a mantenersi in continuo, miracoloso equilibrio tra erotismo e disfacimento, bellezza e decadenza, perfidia e struggimento, forza e disillusione.

Con tali (rare) qualità, la leggendaria interprete di King Kong, Tootsie e Blue Sky incarnava perfettamente lʼanima della serie di Murphy e Falchuk, caratterizzata da una raffinata, riconoscibilissima commistione di horror, grottesco, melò e camp. Tuttavia, malgrado lʼassenza della Lange, Cult può comunque essere considerata una delle migliori stagioni di American Horror Story, soprattutto perché riesce a evocare  atmosfere allucinate senza dover necessariamente ricorrere allʼelemento fantastico.

Del resto, il panorama politico statunitense, in particolar modo quello attuale, a causa delle numerose, lancinanti contraddizioni che, perversamente, lo tengono in vita, non ha certo bisogno di spiriti e interventi paranormali per poter risultare (drammaticamente) surreale.

© CultFrame 01/2018

CREDITI
Titolo: American Horror Story Cult/ Ideatori: Ryan Murphy e Brad Falchuk / Sceneggiatura: Ryan Murphy, Brad Falchuk, Tim Minear, James Wang, John J. Gray, Crystal Liu, Josh Green, Adam Penn/ Registi: Bradley Buecker, Liza Johnson, Gwyneth Horder-Payton, Maggie Kiley, Rachel Goldberg, Barbara Brown, Angela Bassett, Jennifer Lynch/Fotografia: Gavin Kelly/Montaggio: Ken Ramos, AJ van Zyl, Sean Aylward/ Musica: Mc Quayle/Produttori esecutivi: Ryan Murphy, Brad Falchuk, Tim Minear, Bradley Buecker, Alexis Martin Woodall, James Wang/ Casa di produzione: 20th Century Fox Television, Ryan Murphy Productions /Interpreti: Sarah Paulson, Evan Peters, Cheyenne Jackson, Billie Lourd, Alison Pill, Adina Porter, Leslie Grossman, Colton Haynes, Dermot Mulroney, Emma Roberts, Frances Conroy, Mare Winningham / Origine: USA / Emittente tv USA: FX / Emittente tv Italia: Fox / Episodi: 11/ Anno: 2017

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