Del controverso rapporto tra fotografia e musica

Questa sarà una breve riflessione, o se volete invettiva, nei riguardi del deficit culturale e dell’inconsapevolezza linguistica che sembrano, purtroppo, caratterizzare e non voler mai abbandonare la disciplina fotografica, forma di espressione ormai quasi bicentenaria. In particolar modo, mi riferisco a una pratica allo stesso tempo divulgativa e fruizionale che sovrabbonda negli ambienti in cui si cerca di insegnare, promuovere e comunicare la fotografia.

Il metodo con il quale lavori e progetti vengono quasi sempre presentati in pubblico è ormai da anni il seguente: elaborazione di una slide (e anche in questo caso ce ne sarebbero molte da dire in quanto ad approssimazione linguistica) alla quale viene appioppata in maniera posticcia ed estremamente superficiale una musica. Il risultato di tale effimera e inaccettabile commistione di linguaggi, priva di qualsiasi idea e concezione compositiva ed estetica, è quello di procreare nella maggioranza dei casi degli insopportabili obbrobri linguistici che vanno a produrre dei minotauri mostruosi, degli sterili “freaks” fotografici che paradossalmente soddisfano una visione dominante della fotografia dai tratti tragicamente e sterilmente borghesi. Attraverso questa pratica, si cerca di scimmiottare la lingua cinematografica, forma di comunicazione che al contrario della fotografia ha, geneticamente, una struttura meticcia adatta alla correlazione di lingue diverse all’interno di un unico territorio espressivo.

Ciò che induce la stragrande maggioranza dei fotografi a divulgare in pubblico le proprie immagini sostenute artificialmente dalla musica è quella che definirei paura del silenzio, paura che nasconde un altro più significativo timore: il terrore di non saper accettare l’horror vacui, l’abisso, il non senso che in genere comunica ogni fotografia, anche la più realistica. Così, abbondano commenti musicali didascalici, ripetitivi, ridondanti, confortanti, riconoscibili, superflui e irritanti. Siccome l’immagine fotografica, fortunatamente, non produce significati e non può veicolare contenuti, ecco che si tenta di anestetizzare la sua parte significante e autenticamente sovversiva con dei suoni che costringano il fruitore a rintracciare un possibile senso, il tutto grazie a un commento sonoro magari molto noto, riconoscibile, riconducile a un’area geografica, a un genere musicale, a un periodo storico. In questi casi, l’effetto è disastroso e umiliante, proprio per l’immagine fotografica.

Questa mia invettiva non vuole, però, semplicemente configurarsi come una denuncia distruttiva e pessimista, intende invece sollevare un problema che il mondo della fotografia, a causa di alcune chiusure preconcette, rifiuta di discutere. È chiaro che un dialogo linguistico tra fotografia e musica è possibile, forse auspicabile, ma è altrettanto chiaro che questo rapporto non possa esaurirsi in un’ingenua e infruttuosa commistione priva di elaborazione concettuale e poetica.

Far comunicare, intrecciare una lingua visuale che usa i segni della realtà (ma solo i segni, non la realtà effettiva) per rappresentare il mondo (ma non solo), come la fotografia, e un’altra lingua che si manifesta come astratta e intangibile pianificazione di effetti sonori, come la musica, è operazione molto ardita che non può essere elaborata attraverso fasi separate e consecutive (e il problema in verità esiste anche per il cinema) ma solo  grazie a un processo di germinazione estetico-formale unitario, senza barriere, libero e basato sul concetto di reciproca accoglienza e compenetrazione tra forme poetiche.

© CultFrame – Punto di Svista 04/2017

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