Le fotografie cromatiche e lo sguardo errante di Giulia Marchi

© Giulia Marchi. Multiforms #13
© Giulia Marchi. Multiforms #13
© Giulia Marchi. Multiforms #13

Un artista può essere capace di creare forme linguistiche totalmente nuove in grado di edificare architetture espressive assolutamente autonome? Per quel che riguarda la mia personale esperienza sul campo, soprattutto nel settore delle arti visive tecnologiche, direi che ciò è praticamente impossibile e che quasi tutte le grandi mutazioni nel campo dell’arte, della fotografia e del cinema (considerate universalmente rivoluzionarie) sono in verità delle evoluzioni/rielaborazioni in chiave estetica (per estetica intendiamo sentimento che si genera grazie all’esperienza della percezione soggettiva) di elementi, temi e lingue archetipiche (che anticipano, di fatto, l’idea stessa di storia della cultura e dell’arte).

Tutto, dunque, nel campo creativo è connesso, intrecciato; tutto è caratterizzato da un processo di filiazione che a volte sembra difficile da identificare ma che a ben vedere si mostra come inequivocabile. Per tale motivo mi interessano in particolar modo quegli artisti che, giocando in maniera intelligente a carte scoperte, dichiarano (implicitamente ed esplicitamente) le loro attinenze, le loro connessioni, le loro “dipendenze” creative da altri autori, nella consapevolezza che se storicisticamente il prima e il dopo possono avere un valore, ponendosi fuori dalla storicizzazione, appunto, la dimensione cronologica perde tutta la sua consistenza per lasciare spazio, invece, alla libera e fruttuosa concatenazione delle esperienze estetiche.

Un caso emblematico, in tal senso, è quello di Giulia Marchi. L’artista/fotografa riminese, da tempo, compie un percorso soggettivo di edificazione di un territorio linguisticamente meticcio nel quale riordina secondo un principio personale impulsi che derivano direttamente dai suoi interessi e dagli stimoli che arrivano alla sua mente da altri autori.

È interessante a questo proposito il suo metodo, specie quando il suo lavoro scaturisce dall’intenso rapporto con la scrittura e la letteratura. Immagini che sgorgano da parole, visioni che erompono da testi; e questi ultimi non solo letti, non solo studiati con attenzione. Sono soprattutto analizzati e scomposti, guardati letteralmente al microscopio (come ad esempio nel caso di Prima di essere schiuma saremo indomabili onde), salvo poi riemergere nelle sue opere in modo mai didascalico, mai banalmente citazionistico, mai prevedibile, proprio perché frutto di una rielaborazione soggettiva.

                 Giulia Marchi                           Giulia Marchi

© Giulia Marchi. 1 Multiforms #16 / 2. Multiforms #04

Ebbene, una delle esperienze dell’artista di Rimini che più mi ha incuriosito nel corso degli anni è quella denominata Multiforms (2013). Si tratta di alcune immagini estremamente semplici dal punto di vista della fruizione. Sono composizioni cromatiche che vengono fuori da riferimenti materici quasi rassicuranti (lana, ad esempio) ma che nascondono qualcosa di enigmatico, inquietante e di fortemente interiore. Tali potenti cromatismi si palesano come risultato estetico della lettura di testi connessi alla figura di Mark Rothko.

Mi sono inizialmente domandato cosa potesse collocare nel medesimo territorio espressivo Giulia Marchi e Mark Rothko (senza voler fare degli sterili e inutili paragoni, ovviamente). Cosa poteva aver toccato intimamente l’artista italiana della figura del pittore americano, di origine lettone? È difficile fornire una risposta precisa. Ma partiamo da Rothko. Pittore di ambito astrattista, notissimo per le sue opere sostanzialmente e puramente cromatiche prive di elementi realistici e figurativi, Rothko è stato un personaggio di estremo interesse. In primo luogo, per la sua estrazione culturale di derivazione ebraica. La frequentazione nella giovinezza di una scuola talmudica probabilmente ha fortemente introdotto nella sua psiche l’idea dell’impossibilità di associazione tra “sublime” e “figurazione”, tra “spiritualità” e “immagine antropomorfica”. E ancora: il suo sentirsi sempre straniero, decontestualizzato e, di fatto, errante l’ha evidentemente spinto verso un’astrazione cromatica che era a tutti gli effetti desiderio di assenza, manifestazione di una mancanza, di un vuoto profondo, volontà di tirarsi fuori dalla storia e dal tempo.

© Giulia Marchi. Multiforms #07
© Giulia Marchi. Multiforms #07

Giulia Marchi a suo modo opera come un’autrice errante, tra lingue artistiche, tra forme di comunicazione, tra esperienze estetiche. Ancor di più: errante tra le sue curiosità intellettuali e tra i diversi impulsi che di volta in volta la colpiscono. Quest’ultimo aspetto, per essere precisi, è a mio avviso un grandissimo pregio e dimostra come l’autonomia espressiva non derivi dal concetto di innovazione (semplicemente utopistico) quanto piuttosto da quello di (ri)costruzione tramite architetture creative personali.

Multiforms, in tal senso, è un esempio di (ri)costruzione che si manifesta come evocazione sincera e propositiva del mondo di Rothko, come allusione a un universo espressivo nato da un’esperienza umana incredibile. Giulia Marchi a suo modo sembra procedere verso una sana e rigorosa iconoclastia che molto probabilmente non deriva dalle sue radici culturali (diverse da quelle di Rothko) ma dalla sua particolare predisposizione interiore a errare (cioè a vagabondare esteticamente e a livello percettivo), a non essere mai “al suo posto”, a spostarsi “mentalmente” da un mondo all’altro, a sentirsi straniera nell’atto di fabbricazione artistica, nella consapevolezza che tutto è stato già pensato, immaginato, scritto, dipinto, fotografato e filmato.

© CultFrame – Punto di Svista 07/2016
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)

SUL WEB
Il sito di Giulia Marchi

 

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