Berlinale 2016. 66° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. I Premi

Berlinale 2016Con la vittoria dell’Orso d’oro per il Miglior film della sessantaseiesima edizione della Berlinale, Fuocoammare di Gianfranco Rosi entra nel gruppo assai ristretto dei così detti ‘documentari’ ammessi e premiati a uno dei principali festival cinematografici del mondo.

Dopo il successo ottenuto nel 2012 proprio a Berlino da Cesare deve morire dei fratelli Taviani e dopo il Leone d’oro conquistato a Venezia nel 2013 da Sacro GRA dello stesso Rosi è un fatto che il ‘cinema del reale’ italiano stia diffondendosi e ottenendo riconoscimenti internazionali in modo tutto sommato analogo al neo-realismo del secondo dopoguerra, con cui condivide in certi casi una istanza etica simile oltre che la ricerca di una originalità linguistica.

Detto ciò, è doveroso precisare che il Concorso della Berlinale 2016 non annoverava molte opere di valore eccelso e indiscutibile, come dimostrano anche il Gran premio della giuria assegnato per la seconda volta dopo il 2013 a Danis Tanovic per il suo Death in Sarajevo, tratto da una pièce del discusso nouveau philosophe Bernard-Henri Lévy, o il premio Alfred Bauer per un film che apre nuove prospettive che è andato al fluviale A Lullaby to the Sorrowful Mystery con cui Lav Diaz replica di fatto un dispositivo cinematografico già ampiamente collaudato.

Miglior regista è risultata Mia Hansen-Løve per L’avenir, un’opera senz’altro matura e ben diretta con una regia fluida e in certi passaggi fin troppo elegante. Il premio per la migliore sceneggiatura è andato al polacco Tomasz Wasilewski per il film da lui diretto United States of Love, quello per il migliore contributo artistico in ambito tecnico a Mark Lee Ping-Bing per la fotografia di Crosscurrent del cinese Yang Chao.

Migliore attrice è stata giudicata Tryne Dirholm per il film Kollektivet di Thomas Vinterberg. Il miglior attore, invece, è Majd Mastoura, protagonista di Hedi del tunisino Mohamed Ben Attia, un film d’esordio che ha vinto anche il premio la miglior opera prima di quest’edizione (assegnato dalla giuria composta da Michel Franco, Enrico Lo Verso e Ursula Meier) e che racconta il conflitto vissuto da un giovane uomo nordafricano con la tradizione del matrimonio combinato che la madre gli vuole imporre.

A questo proposito, bisogna riflettere su come abbia giocato in favore di Rosi la volontà della giuria di segnalare un’opera che racconta in modo personale il tema di attualità più bruciante della nostra epoca, quello delle migrazioni, economiche e non, che pongono l’uno di fronte all’altro popoli e modelli culturali differenti. Tra i film del concorso ce n’era almeno un altro dedicato a un aspetto diverso e particolare di questo fenomeno come Soy Nero di Rafi Pitts, lungometraggio di finzione ben scritto e recitato sui green card soldiers, quei messicani e ispano-americani senza cittadinanza statunitense che si arruolano nell’esercito USA per ottenerla.

Nelle altre sezioni del programma berlinese si sono poi viste molte opere notevoli su tali temi. Ne segnaliamo alcune dalla sezione Forum: Les Sauteurs (Those Who Jump) di Estephan Wagner e Moritz Siebert, che hanno montato le immagini realizzate con la loro videocamera da Abou Bakar Sidibe, accampato per oltre un anno su di una collina prospicente la barriera di Melilla, l’enclave spagnola in Marocco che per molti migranti rappresenta la porta d’Europa; il Premio Caligari di quest’anno, In the Last Days of the City dell’egiziano Tamer El Said, un film interessante perché adotta un dispositivo documentaristico per raccontare i prodromi della rivoluzione di piazza Tahrir e i destini di quattro giovani registi (un egiziano, due irakeni e un libanese) che cercano di resistere nei loro paesi, o fuggono in Europa; e infine, a tutt’altre latitudini, Ta’ang di Wang Bing che durante lo scorso anno è andato a filmare in presa diretta ma sempre con uno sguardo altrettanto rigoroso di quello di Rosi l’esodo verso la Cina del popolo Ta’ang dalle regioni del Myanmar sconvolte dalla guerriglia.

Nella sezione Panorama si è invece visto La Route d’Istanbul di Rachid Bouchareb che segue il viaggio di una madre disperata dal Belgio, alla Turchia verso la Siria alla ricerca della figlia unitasi a un gruppo di foreign fighters europei. Un film in cui il regista racconta quella storia che uno dei suoi personaggi di London River, di fronte alla scomparsa del figlio in concomitanza con gli attentati di Londra, osava solo ipotizzare.

In quest’ultima sezione, in cui i film ricevono principalmente premi del pubblico, quest’anno hanno vinto gli israeliani Junction 48 di Udi Aloni e, nella sezione documentari, Who’s Gonna Love Me Now? di Barak Heymann e Tomer Heymann. I Teddy per i migliori film LGBT sono invece andati all’austriaco Kater di Händl Klaus, con il vero gatto del regista in scena, e al doc Kiki di Sara Jordenö mentre il pubblico ha preferito il francese Théo et Hugo dans le même bateau (Paris 05:59) di Jacques Martineau e Olivier Ducastel. Quest’ultimo segue, in un lasso di tempo pari a quello della durata del film, la notte in cui i due protagonisti irrompono l’uno nella vita dell’altro in modo esplosivo. Rovesciando il paradigma temporale di una tradizionale storia romantica etero, i due prima fanno sesso (in un bar à sexe parigino) e poi iniziano a conoscersi e la loro storia si dipana mentre in bicicletta o a piedi percorrono le strade di Parigi dal centro verso Nord, in una forma che ricorda quella adottata da Agnès Varda in Cléo de 5 à 7. Il film rappresenta anche il tentativo riuscito di tematizzare l’AIDS al cinema in un modo nuovo, senza banalizzarlo, ma iscrivendolo in un racconto notturno né cupo né mortifero.

Il fatto che le cose migliori di questa 66° Berlinale si siano viste fuori dal concorso principale e la scarsa ricettività della distribuzione italiana nei confronti di film che osano forme e racconti inconsueti impongono agli spettatori italiani di cercare le opere più interessanti presentate a Berlino fuori dal circuito commerciale delle nostre sale.

© CultFrame 02/2016

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