65° Berlinale ⋅ Festival Internazionale del Cinema di Berlino ⋅ I Premi

Quali ingredienti determinano il successo della oramai collaudata mistura cinematografica che il direttore Dieter Kosslick allestisce con una ricetta più o meno sempre uguale fin dal 2001? Come mai l’edizione della Berlinale appena conclusasi ci ha sorpreso positivamente dopo alcune annate di alti e bassi? L’Orso d’Oro a Jafar Panahi è un premio ‘politico’ che vuole accontentare tutti o un riconoscimento davvero meritato? Riflettendo su questi quesiti il giorno dopo la chiusura ufficiale della rassegna, va subito detto che per il buon esito di una manifestazione quale il Film Festival di Berlino contano molto i film disponibili per l’inverno e l’intelligenza dei giurati chiamati a giudicarli: il 2015 è stato un anno fortunato per entrambi questi aspetti.

Storicamente, la Berlinale è sempre stata molto considerata dal cinema americano, al punto che la sua collocazione tra la consegna dei Golden Globes e quella degli Oscar le consentiva di proiettare per la prima volta in Europa alcuni dei film premiati dalle prestigiose statuette hollywoodiane. Negli ultimi anni il festival ha spostato progressivamente il suo asse aprendosi ai cinque continenti, infarcendo il Concorso di co-produzioni internazionali, in buona parte sviluppate proprio a Berlino grazie a progetti quali il Berlinale Co-Production Market e il World Cinema Fund, e istituendo anche sezioni dedicate al cinema extra-europeo com’è il caso di “Native cinema”.

Tale approccio è riscontrabile anche nella composizione della giuria del concorso principale, presieduta dal regista americano Darren Aronofsky e composta dai suoi colleghi Claudia Llosa (peruviana) e Bong Joon-ho (coreano), dal creatore di Mad Men Matthew Weiner, dagli attori europei Daniel Brühl e Audrey Tautou (nel 2014 c’erano un altro attore talentuoso di lingua tedesca, Christoph Waltz, e l’attrice danese Trine Dyrholm), dalla produttrice Martha De Laurentiis (l’anno scorso c’era Barbara Broccoli a rappresentare un’altra dinastia).

Pubblicato il programma, a fine gennaio, c’era da chiedersi: riusciremo quest’anno a schivare gli inevitabili filmoni gonfi e inconsistenti? Cosa dire dell’ennesima produzione finto indipendente con James Franco, presente anche quest’anno con tre film e nell’ultimo Wenders, aumentando la nostra diffidenza nei suoi confronti? Come avrà fatto Herzog a conservare uno sguardo autentico nel polpettone romantico-storico-epico con Nicole Kidman presentata alla stampa come una “Lawrence d’Arabia al femminile”? Se l’anno scorso non eravamo usciti indenni dalla visione del film di chiusura, il modesto La bella e la bestia di Christophe Gans, potremo rinunciare serenamente alla versione 2015 di Cinderella firmata da Kenneth Branagh?

Le risposte a queste domande sono contenute nelle nostre recensioni ai film visti durante il Festival. Per quanto riguarda la qualità complessiva del Concorso la differenza, naturalmente, la fanno i film, ma bisogna dire che anche la giuria ha avuto un ruolo importante. Difatti, quest’anno la Berlinale ha potuto proporre una rosa di opere di alto livello e i giurati sono riusciti a ignorare gli autori già affermati (Greenaway, Malick, Herzog) e le produzioni più e meno ambiziose messe insieme quasi soltanto per partecipare a un festival come questo (Coixet, Bispuri, Jacquot), privilegiando, suona quasi strano ammetterlo, i film più convincenti e trascurando la logica delle bandierine. Era da anni che il Palmares berlinese (ma lo stesso potrebbe dirsi di Venezia) non contava nessun americano e nessun orientale; e anche la cinematografia di casa si è dovuta accontentare di un premio “tecnico” (e per di più ex-equo) come l’Orso d’argento a Sturla Brandth Grøvlen per i piani sequenza chilometrici realizzati nel film Victoria di Sebastian Schipper, condiviso con i colleghi russi che hanno filmato i sette quadri sull’ex URSS che compongono Under Electric Clouds di Alexey German jr.

Altro ex-equo per il premio alla Miglior regia, assegnato a Body della sempre sorprendente autrice polacca Malgorzata Szumowska e al dramma storico Aferim del rumeno Radu Jude. Il premio Alfred Bauer per la rivelazione dell’anno è andato a Ixcanul del guatemalteco Jayro Bustamante, mentre un premio per la migliore sceneggiatura è stato consegnato al veterano Patricio Guzmán per l’unico documentario presente nella selezione principale, El Bóton de Nacár, il cui script spazia dal naturalistico all’antropologico riuscendo a narrare il genocidio subito dagli indigeni della Patagonia nei secoli passati e il destino dei desaparecidos cileni del Novecento.

Meritato il doppio riconoscimento ai Migliori attori, Charlotte Rampling e Tom Courtenay, per 45 Years di Andrew Haigh, in cui i due interpretano una coppia in procinto di festeggiare il 45° anniversario di matrimonio mentre emerge improvvisamente dal passato una precedente e tragica storia d’amore del marito. Meritatissimi, non serve aggiungere altro, il Gran Premio della Giuria al cileno El Club di Pablo Larraín e l’Orso d’Oro al nuovo film ‘clandestino’ di Jafar Panahi, Taxi, una scelta non soltanto politica ma che riconosce l’indubbio talento creativo e registico dell’autore iraniano perseguitato nel suo paese che ha tentato in ogni modo, e speriamo invano, di limitarne la libertà d’espressione.

In conclusione, sono da elogiare anche quest’anno le proposte delle sezioni Panorama, Forum e Generation che insieme ad altre selezioni non competitive completano il ricchissimo carnet della Berlinale. Per quanto riguarda Forum, va segnalato anche che la giuria dei critici Firpresci ha voluto conferire il suo premio al documentario italiano Il gesto delle mani di Francesco Clerici, che mostra il processo di creazione di una scultura di Velasco Vitali nella Fonderia Artistica Battaglia di Milano, una delle più antiche d’Italia.

© CultFrame 02/2015

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