Esiste la critica fotografica in Italia? Sì, no, forse

Esiste oggi una vera e propria critica fotografica in Italia? È possibile fornire una risposta a una domanda tanto generica?
Forse bisognerebbe iniziare dal quesito che (si) pone Elisa Medde nel suo saggio (Di cosa parliamo quando parliamo di fotografia?) inserito nel libro intitolato Generazione critica – La fotografia in Italia dal Duemila (Danilo Montanari Editore, 2014). La domanda appena evocata è: che cos’è la critica e qual è il suo ruolo?

Per chi come me proviene inizialmente dalla critica cinematografica suona un po’ come un esercizio retorico, visto che in ambito cinematografico partecipo ormai da decenni a convegni e incontri che si occupano di questo problema. La critica cinematografica riflette da molto tempo sul proprio ruolo (sempre più marginale purtroppo) e, pur tra mille difficoltà e faticando a cogliere determinate innovazioni scaturite soprattutto grazie al web, ha assistito alla nascita di una “nuova” generazione di critici sempre più liberi, per non dire “anarchici”, rispetto alle accademie e ai poteri forti. Elisa Medde, dunque, riflette sulle modalità per “rinnovare la pratica della critica… per renderla stimolante, inclusiva, davvero contemporanea”. Proprio questa riflessione sembra essere la cartina di tornasole del ritardo incredibile che la fotografia italiana (nella pratica artistica e in quella critico/divulgativa), con le dovute eccezioni, vive tutt’ora, tra protezionismo culturale e tendenze iper-accademiche.

Ma proprio il libro Generazione critica si mostra come un tentativo positivo di dare voce a una “nouvelle vague” italiana fatta di studiosi nati negli anni Settanta. Questi ultimi, grazie ad alcuni saggi, cercano di studiare, capire e divulgare l’opera di artisti loro coetanei. Ebbene, questa impostazione se da un lato ha fornito compattezza al percorso divulgativo ha però innescato per l’ennesima volta quel processo di provincializzazione che riguarda l’intero sistema della cultura fotografica italiana, pur con alcune eccezioni.

Nonostante ciò, alcuni passaggi di questo volume possono fornire al lettore degli spunti di riflessione di notevole interesse. Mi riferisco soprattutto ad alcuni brani dei testi firmati da Daniele De Luigi e da Sergio Giusti. Il primo, nel suo Brand New Real, effettua un’analisi relativa al reportage e all’immagine documentaria che senza alcun dubbio posso definire coraggiosa, specie per un “giovane” critico che deve sapersi barcamenare in un sistema come quello italiano nel quale prendere una posizione precisa può risultare professionalmente controproducente. Per chi come me insiste da anni su determinati argomenti, generando sempre un certo sgomento nel mondo fotografico italiano, leggere che il “reportage, ancora oggi è incardinato in schemi ripetitivi ed è refrattario a riconoscere i propri limiti” e che “la fotografia come documento ha subito diversi attacchi negli ultimi decenni, spesso non immeritati”, è stata una sensazione di autentico sollievo. De Luigi si spinge addirittura a stigmatizzare (è su questo aspetto sono perfettamente d’accordo con lui) le “ingenue” affermazioni di una star del mondo dei fotoreporter come James Natchwey, il quale ha dichiarato: “una volta che hai visto, sai”.

Questi passaggi, per chiunque si occupi di fotografia in modo oggettivo e non da una posizione di (presunto) potere, sembrano evidenziare delle ovvietà, addirittura delle banalità. Eppure, se un critico della “nuova generazione” come Daniele De Luigi ha sentito l’esigenza di esternare in modo lucido queste sue posizioni significa che in Italia c’è ancora bisogno di divulgare queste idee (che evidentemente disturbano, e personalmente ne so qualcosa). E ciò non è certo un segnale positivo.

Ne Lo spettacolo e lo spettro: la fotografia e il velo del contemporaneo, Sergio Giusti elabora un percorso critico legato al pensiero dello sloveno Slavoj Žižek e alla questione (anche questa se vogliamo obsoleta, ma non per l’Italia) del valore dell’immagine nell’ambito dei sistemi di comunicazione di massa. Ogni immagine veicolata attraverso la televisione è falsa (tutte, dall’intrattenimento alla pseudo programmazione culturale e sociale, telegiornali compresi). Tutto vero, tutto giusto, tutto però ampiamente sviluppato (con impostazioni differenti ed esiti diversi) da significativi intellettuali del Novecento come Pier Paolo Pasolini, Guy Debord e Jacques Lacan (per altro citati dallo stesso Giusti).

Žižek è semplicemente arrivato con un po’ di ritardo. Ha avuto il merito, però, di andare nella fossa dei leoni (esattamente come fece Pasolini più di quaranta anni fa), cioè in televisione, per cercare di scardinare da dentro un sistema di comunicazione secondo il quale “solo ciò che è preparato per essere spettacolo (anche la fotografia di reportage, aggiungo io) può materialmente esistere”.

A tal proposito, è divertente il modo in cui Giusti apre il suo saggio, e cioè evocando la grottesca apparizione di Žižek nella trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo che fa. Apparizione triste e assurda esattamente come quella che ha visto protagonista, sempre da Fazio, il cineasta e fotografo David Lynch. Žižek e Lynch, due intellettuali (consapevoli di quello che stavano facendo) trasformati dalla tv in immagini-spettacolo costruite per esistere dentro un sistema di informazione medio(cre), senza qualità.

© CultFrame – Punto di Svista 07/2014
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)

CREDITI
Titolo: Generazione critica – La fotografia in Italia dal Duemila / A cura di Marcella Manni e Luca Panaro / Saggi di: Daniele Casciari, Jacopo De Gennaro, Giovanni Sellari, Guido Meschiari, Tommaso Mori, Daniele De Luigi, Pier Francesco Frillici, Sergio Giusti, Elisa Medde, Luca Panaro, Carlo Sala / Danilo Montanari Editore, 2014 / Pagine: 61 / ISBN 978-88-98120-39-0

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