La grande bellezza e il premio oscar, tra ipocrisie e i luoghi comuni generati dalle arti visive americane

Finalmente ci siamo tolti il pensiero: La grande bellezza ha vinto il premio Oscar come miglior film straniero. È interessante ciò che è successo nelle ultime settimane intorno a questo film. Accolto alla sua uscita in Italia con freddezza e scetticismo, questo lungometraggio ha iniziato piano piano a diventare l’ossessione proprio di chi l’aveva snobbato. Si, perché se c’è uno sport nazionale nel quale noi italiani eccelliamo nel mondo è quello del salto nel carro del vincitore. E così puntualmente è stato. La frenesia provinciale che si è scatenata nelle settimane appena passate ha portato alla comparsa negli organi di informazione e nei mass media di uno scomposto tifo da stadio nei riguardi de La grande bellezza veramente imbarazzante. Ora il premio è arrivato e tutti sono pronti a gridare al capolavoro perché è così che bisogna dire anche se prima si è detto e pensato l’esatto contrario. Per quel che mi riguarda ho la coscienza a posto e basta leggere la mia recensione pubblicata a suo tempo su Cultframe per rendersene conto.

Sorrentino in occasione della premiazione si è comportato in maniera brillante, ha recitato alla perfezione il suo ruolo tirando fuori il nome che tutti gli americani avrebbero voluto sentire: Fellini. Va bene così, il regista napoletano è personaggio troppo intelligente per non capire che per giocare la partita di un qualunque sport bisogna rispettarne le regole. Il pubblico internazionale (e quello americano in particolare) ha costruito un’immagine dell’Italia costituita da luoghi comuni e Fellini è, nel tempo, divenuto uno di questi. Ma d’altra parte la rappresentazione stereotipata da parte americana del nostro paese, e in particolare di Roma (come luogo comune per eccellenza), come ho già scritto altre volte, ha radici molto lontane nell’ambito delle arti visive statunitensi e mi riferisco a operazioni come quelle messe in piedi da William Wyler con Vacanze romane (1953) e da William Klein con il suo lavoro fotografico sulla capitale effettuato tra il 1956 e il 1960.

Ci saranno per qualche tempo grandi celebrazioni e cerimoniosi ossequi alla figura di Paolo Sorrentino e con tutta probabilità ciò gioverà (e ne siamo felici) alla sua carriera. In verità, si tratta di un regista che merita tutto il bene possibile; è uno dei veri talenti registici in circolazione in Italia, uno dei pochissimi in grado di sprovincializzare il nostro cinema e di collocarlo in una dimensione mondiale. È, insomma, un importante autore a cui molti però (anche nell’ambito più strettamente critico) hanno sempre fatto le pulci.

Ora avrà tutti dalla sua parte, magicamente, e forse l’antidoto per non farsi trascinare dal trionfalismo sterile a cui si sta assistendo in queste ultime ore sarà quello di concentrarsi sul proprio lavoro, di lasciare alle spalle la giusta (momentanea) euforia per questo riconoscimento e magari di usare la statuetta (come mi pare disse una volta Woody Allen, ma potrei sbagliarmi) come ferma porte quando in casa c’è corrente.

Personalmente, avrei preferito che Paolo Sorrentino fosse rimasto in compagnia di giganti della storia del cinema come Stanley Kubrick, Orson Welles e Robert Altman ed altri, premiati solo con riconoscimenti collaterali (vedi il misero premio agli effetti speciali per 2001 Odissea nello spazio, il premio per la miglior sceneggiatura originale assegnato a Welles per Quarto potere e l’inutile e tardivo Oscar alla carriera dato ad Altman) o addirittura mai presi in considerazione dal sistema autoreferenziale di Hollywood.

© CultFrame – Punto di Svista 03/2014
(pubblicato su Huffington Post)

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