Luce, tempo, memoria

© Pietro D’Agostino

“Il tempo è ciò che impedisce alla Luce di giungere a noi”. Questa frase del teologo e religioso tedesco Meister Eckhart, uno dei massimi mistici del medioevo occidentale (1260 – 1328), è stata travisata intenzionalmente dal sottoscritto e usata, come scriverò più avanti, per altri scopi. Avverto però, con senso di gratitudine, in queste poche e semplici parole un qualcosa di intimo, familiare, non solo all’interno delle mie supposizioni sull’uso del dispositivo fotografico e delle sue conseguenze nella pratica con la fotografia.

Finché assoceremo la fotografia alla dimensione del ricordo, impediremo alla luce di giungere a noi come apparizione: quindi non per una presenza diretta ma per suggestione, per un suggerimento della memoria. Probabilmente perché l’apparire ha più a che fare con le cose, i luoghi, gli spazi e non con il concetto di tempo. Dunque, potremmo supporre che la fotografia non sia un ricordo ma più che altro è un’esperienza.

La fotografia non è una memoria-tempo ma una memoria-cosa, come ogni altra cosa del mondo, questo sostiene Mario Costa in Della fotografia senza soggetto – Costa&Nolan edizioni, collana pre-testi, Milano 1997. Lo stesso autore, (filosofo, riconosciuto a livello internazionale per i suoi studi sulle conseguenze delle nuove tecnologie sull’arte e l’estetica) scrive nel testo sopra citato commentando il lavoro del fotografo francese Riwan Tromeur: “il fotografico non è la fissazione di uno sguardo del soggetto ma un modo dell’apparire”. Confondere il senso della fotografia con il senso della cosa fotografata, per Costa, è il malinteso concettuale di fondo di molte riflessioni sinora applicate a sostegno di un’interpretazione della fotografia.

luce tempo memoriaQuindi, se una fotografia è una cosa come ogni altra cosa del mondo e ci appare, ci informa con una modalità come quella degli agenti atmosferici o delle cose in genere, non lo fa certo in riferimento al tempo a cui noi, come esseri umani, facciamo comune riferimento. Forse, se la luce è il modo di essere della fotografia senza la quale non apparirebbe, dovremmo dare a questo elemento una sorta di priorità ontologica su cui interrogarci? Visto che una sua qualità/proprietà è quella di essere mediatrice, di continuum che ci permette, in concomitanza di altri elementi, di relazionarci con il resto dell’esistente? Tra l’altro, una delle declinazioni di apparire è proprio venire alla luce. Rimane comunque aperta la questione, certo di non poco conto, a cui Maurizio G. De Bonis fa riferimento in un precedente articolo apparso su queste pagine inerente il confine tra sguardo e immagine, lanciando in prospettiva un’ulteriore riflessione ponendo la questione se esiste una differenza tra percezione e sguardo.

A mio modesto avviso un’utile considerazione potrebbe essere avviata ponendo l’attenzione sui linguaggi in generale e non tanto sull’oggetto del contendere in sé. In effetti, come si sta delineando in vari ambiti, non solo scientifici, ci si interroga sempre più sui limiti dei nostri linguaggi, i quali non sono e non possono essere onnicomprensivi ma limitati e il  limite è appunto il codice con cui un linguaggio è strutturato. Un esempio pratico è che non vi sarebbero tanti tipi di linguaggi ognuno per e con uno scopo ben preciso, tutti tesi a rappresentare il loro ambito esperienziale. Altrimenti, ne basterebbe uno solo. Certo, essi interagiscono, si sommano e le cose più interessanti succedono proprio quando vi è una commistione tra i linguaggi, comunque una specificità di partenza è inequivocabile.

Chissà se trasferire l’ambito di discussione delle specificità della fotografia in un contesto diverso e più ampio potrebbe cambiare le carte in tavola: per esempio inserirla in quelle sull’uso e le pratiche  con la luce, fonte energetica e di informazione per eccellenza, una sorta di storia della luce e delle sue applicazioni. Magari potrebbero apparire circostanze del tutto simili a quello che Mario Costa ci indica e cioè legate all’esperienza di una memoria-cosa più che a una soggettiva memoria-tempo. Cosa ce lo potrebbe vietare? Sicuramente il fatto che non avremmo più il dominio e quindi un potere su quella memoria e, di rimando, avere la netta e sgradevole sensazione che il nostro sguardo non sia una testimonianza del sé ma anch’esso una cosa, come tutte le cose del mondo. Mi chiedo, inoltre, se questi cortocircuiti potrebbero essere salutari, non tanto per evidenziare in maniera masochistica i nostri limiti, quanto per far emergere delle possibilità che possono contribuire a un ampliamento dei nostri orizzonti. Chissà?

© CultFrame – Punto di Svista 06/2013

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