I have seen this place before ⋅ Un libro di Francesco Jodice

I have seen this place before (Dalai Editore) è nato nel 2011, dal mio felice incontro con Francesco Jodice. È un libro che ha una valenza assolutamente autonoma, ma, allo stesso tempo, si tratta della seconda puntata di un progetto aperto, in fieri, iniziato nel 1995, What we want. Da oltre dieci anni il suo lavoro è ospite di alcune fra le più importanti manifestazioni artistiche nel mondo, tra le quali Documenta a Kassel, la Biennale di Venezia, la Bienal de São Paulo, la ICP Triennial of Photography and Video di New York. E quindi la  recente mostra al Museo del Prado di Madrid, la prima dedicata a un artista italiano contemporaneo da quella prestigiosa istituzione.
La sua ricerca, per la quale non ha senso trovare un’etichetta tematica, investiga le mutazioni nei paesaggi sociali contemporanei comparando fenomeni simili in diverse parti del mondo. Per farlo si serve di diversi linguaggi: fotografia, video, installazione, in cui, ogni volta, è una sorta di superamento degli stessi nella loro specificità. Il suo lavoro recente si focalizza su temi geopolitici compiendo disamine dei più recenti “clash of civilizations”.

Bazzicando il suo studio, un loft in cui trovano spazio migliaia di riviste a fumetti, libri di fotografia, computer, rimandi al mondo cinematografico e musicale mi sono trovata di fronte a una sorta di imprevedibile osservatorio composto di fotografie e testi sulla modificazione del paesaggio visto come la proiezione dei desideri della gente. Attualmente l’archivio del progetto, di cui il libro dà testimonianza, comprende lavori realizzati in circa 150 metropoli nei 5 continenti.

Figlio del grande Mimmo Jodice, Francesco è cresciuto in un clima tutto particolare, circondato da artisti, personalità della cultura. In casa loro, a Napoli, vige una sorta di etica della visione e comprendere il significato delle immagini equivale ad avere una buona proprietà di linguaggio.
Il processo alla base dei suoi lavori è sempre lo stesso ed è descrivibile in una successione di fasi. «La prima è un cortocircuito che ricevo da un agente esterno, può provenire da un articolo di giornale, un saggio, una pubblicità, un romanzo, il modo di esprimersi di qualcuno apparso in TV, una locandina in un metrò di una città asiatica, qualsiasi cosa mi provochi un forte senso di disequilibrio emotivo e intellettivo. La seconda fase è la manipolazione di questa suggestione in un corpo teorico e in una posizione intellettuale. Questo sviluppo avviene spesso in modo partecipato, così in progetti molto complessi come la trilogia di film Citytellers, o in progetti collettivi come i network Multiplicity e Zapruder, dei quali ho fatto parte. La terza è la fase della formalizzazione: decido se il processo ormai definito debba prendere la forma di un film, di immagini fotografiche, di una installazione, di un libro. In questa fase inizio ad interessarmi della percezione che altri avranno del lavoro, mi interessa capire come formalizzarlo perché dalla sua forma dipenderà la sua destinazione d’uso (museo, galleria, università, libreria, internet, TV) e quindi la tipologia di persone che potrebbero intercettarlo. Per me fondamentale. In questa fase mi interessa lavorare sul potere e sul dovere dell’opera d’arte di ampliare la natura ed il numero dei suoi utilizzatori, costringendo persone apparentemente disinteressate ad incappare nell’opera d’arte. È per questo motivo che sono interessato alle nuove tecnologie e ai dispositivi narrativi, mi interessano i nuovi linguaggi e i nuovi vettori del racconto perché mi interessa capire dove e come comunicano le persone».

Chi guarda è parte del processo della sua opera, con una metodologia che ha le sue radici negli anni Settanta, quando gli spettatori erano soggetti “performatori” dell’atto scenico e il loro intervento determinava un potenziale sviluppo alternativo dell’opera stessa. L’arte è per lui un soggetto politico e le persone coinvolte nel processo, l’artista e lo spettatore, lo sono altrettanto. Jodice ama ripetere che sin da bambino è rimasto colpito da una frase che è tutt’ora sulla porta della camera oscura di suo padre: «Non c’è arte dove non c’è inquietudine». E proprio dall’inquietudine nei confronti di certi, di molti meccanismi di funzionamento del circostante, nasce quel disagio che poi diviene indagine e quindi progetto.
La sua non è un’affermazione di verità, attraverso le immagini, quanto il tentativo di porre delle domande, alle quali ognuno è libero di dare e di darsi la risposta che crede meglio.

© CultFrame – Punto di Svista 01/2013

CREDITI

Titolo: I have seen this place before / Autore: Francesco Jodice / A cura di Angela Madesani / Dalai Editore, 2011 / pagine: 144 / Prezzo: 60,00 euro / ISBN: 88-6620-219

SUL WEB
Il sito di Francesco Jodice

0 Shares: