Non si vive di solo Cartier-Bresson. Parte II

Copertina del libro L’art sans art d’Henri Cartier Bresson di Jean-Pierre Montier (Flammarion, 1995) con l’immagine Derrière la gare Saint-Lazare, pont de l’Europe (Paris, 1932)
Copertina del libro L’art sans art d'Henri Cartier Bresson di Jean-Pierre Montier (Flammarion, 1995) con l'immagine Derrière la gare Saint-Lazare, pont de l’Europe (Paris, 1932)
Copertina del libro L’art sans art d’Henri Cartier Bresson di Jean-Pierre Montier (Flammarion, 1995) con l’immagine Derrière la gare Saint-Lazare, pont de l’Europe (Paris, 1932)

Continuo la mia riflessione (proposta nel testo intitolato Non si vive di solo Cartier-Bresson. Parte I) sugli stereotipi generati dalla strumentalizzazione acritica dell’opera di Henri Cartier-Bresson. E lo faccio prendendo come ulteriore spunto un’immagine (molto nota) collocata anche sulla copertina del volume L’art sans art d’Henri Cartier Bresson di Jean-Pierre Montier (Flammarion, 1995).
Si intitola Derrière la gare Saint-Lazare, pont de l’Europe (Paris, 1932).

La fotografia (iper-inflazionata) immortala un individuo, che cerca di saltare (non riuscendovi) oltre una gigantesca pozzanghera, la cui immagine (ribaltata) è riflessa dallo specchio d’acqua.
Ebbene, proprio quest’opera è generatrice di uno dei maggiori stereotipi sulla fotografia di Cartier-Bresson (e sulla fotografia in genere). Il fatto che l’immagine in questione presenti il riflesso speculare di un’azione qualunque, effettuata nello spazio, a mio modesto parere non può essere considerato un fattore di reale interesse (per chi analizza, studia, interpreta e ama la fotografia).

Quali altri elementi di composizione sono così significativi in quest’opera?
La guardo e la riguardo (e l’ho fatto nel corso del tempo, ovviamente) e non riesco a rintracciare alcuno spunto linguistico che sia in grado di trasportare lo studio di questa immagine dalla banale constatazione di contenuti visuali, più o meno curiosi, alla riflessione sul concetto di fotografia o su aspetti (degni di nota) legati all’esistenza del genere umano. Quello che vedo mi appare un po’ scontato e, per altro, non contiene alcun segno incongruente (e questo sì che sarebbe stato interessante) nei riguardi della visione della realtà.
Gli edifici della città che si vedono sullo sfondo, una recinzione, manifesti (con scritte) su un muro, la silhouette di un’altra figura umana. Si tratta di componenti che non aprono alcuno spazio per un’interpretazione dell’opera che sia conseguente a un processo evocativo innescato dall’opera stessa. Si tratta di un semplice istante (come se ne verificano milioni, in ogni minuto di una qualunque giornata in ogni angolo della terra), appunto. Il fatto di averlo bloccato in uno scatto non ha alcun particolare valore (e qui dovremmo aprire un discorso sul punto di vista, sulla percezione, sul campo e sul fuori campo, sul visibile e l’invisibile, sul senso/non senso delle azioni umane…).
E quali importanti contenuti comunicherebbe questo istante del “salto della pozzanghera”?
Anche sotto questo profilo poco o nulla, nonostante l’autore de L’art sans l’art d’Henri Cartier-Bresson si lanci in articolate considerazioni, claudicanti e poco convincenti, che potremmo definire sproporzionate rispetto alla vera sostanza dell’opera. Che sia uno dei lavori di Cartier-Bresson più vicini al surrealismo? A mia avviso no, poiché non contiene alcuna incongruenza visuale e nessuna deriva onirica che sia capace di disarticolare (ovvero, far inciampare) il concetto di reale.
E il manifesto sullo sfondo che ritrae la figura di una ballerina che compie un’evoluzione?
Se la forza di questa fotografia risiede in questo ulteriore “effetto speculare”, mi sembra che si ricada nella fascinazione vacua nei riguardi della “coincidenza strana”, della ridondanza e della similitudine, che a mio avviso non rappresenta un valore espressivo, così come non rappresenta un indice di particolare abilità saper cogliere con lo sguardo un fattore del genere (o saper scegliere tra i molti scatti proprio questo).

E potrei parlare a lungo della banalità delle geometrie raffigurate, della composizione, della relazione tra gli elementi ritratti, ma lo spazio di un articolo non basterebbe. Chiudo, dunque, dicendo che esaltare questa immagine in modo automatico e non problematico vuol dire farle comunicare un dogma e voler ricondurre il fare fotografia solo all’atto (modesto) di rintracciare (come se il fotografo fosse una sorta di cane da caccia) forme geometiche casuali, stranezze, particolarità e istanti qualunque.
Personalmente, non penso che la fotografia, meno che mai quella di Henri Cartier-Bresson, possa limitarsi a ciò. Per rendere giustizia a questa grande figura della storia della fotografia bisognerebbe procedere (ma forse qualcuno l’ha già fatto) a una riorganizzazione critica della sua opera che non parta dal presupposto che ogni scatto di questo fotografo sia un capolavoro.

Di nuovo devo far entrare in ballo il cinema. Perché mai è possibile sostenere, come è giusto a mio avviso, che Federico Fellini (pur essendo un fondamentale esponente della settima arte) abbia girato anche delle opere non significative e ininfluenti nell’ambito della storia del cinema (Ginger e Fred – 1985, Intervista – 1987, La voce della luna – 1990) e, invece, riguardo l’opera fotografica di Henri Cartier-Bresson sia obbligatorio affermare che ogni opera che porta la sua firma sia imprescindibile per la fotografia del XX secolo?

© CultFrame – Punto di Svista 12/2011

 

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