Depositi culturali, luce e fotografia

© Pietro D’Agostino
© Pietro D’Agostino
© Pietro D’Agostino

Cosa percepisco intorno me? Una costante supposizione ad un rigido controllo del tutto, di contro un tutto che se ne infischia, anzi è coerente affermare che non si ha nessun controllo e che il concetto di casualità non ha significato alcuno in quello che tenterò di esaminare. Essendo per formazione un fotografo e come tanti curioso, voglio ripercorrere, per sommi ma sostanziali capi, una storia a ritroso, a sottrazione.
Conosciamo come lo strumento fotografico si fondi su due aspetti basilari della fisica, uno ottico e uno chimico. Possiamo affermare che la parte ottica in fotografia è la riproposizione del nostro sistema visivo ed in effetti è una prassi che ci riporta dritti all’uso della camera oscura. Dotata di un piccolo foro, al quale verrà poi applicata una lente, per migliorare la qualità dell’immagine proiettata su di un piano collocato all’estremità opposta della camera, dando così la possibilità al pittore o incisore di disegnare le linee e i tratti necessari. Pertanto un artefatto, costruito per riprodurre una porzione di realtà considerata esterna, il più fedelmente possibile, con le stesse dinamiche del nostro sistema visivo. La parte chimica, a monte delle diversità del materiale sensibile, che siano pellicole, carte, o quant’altro, fa della luce l’a-priori nel contesto in cui ci stiamo muovendo. Luce, che nel suo attraversare il tutto ed interagendo, nel nostro caso, con le diverse soluzioni chimiche adottate ed usate in fotografia, ci porta non solo ad immaginare cose ma ad interrogarci sui processi degli eventi.

A tal proposito propongo un semplice esperimento e una sua conseguente possibilità. Con Lulux ci apprestiamo a realizzare una ripresa fotografica di un vaso di fiori; accosto il mio occhio alla camera e stò per premere il pulsante di scatto, nello stesso istante lei mette il tappo sull’obiettivo della macchina fotografica che sto usando. Ritento. Stessa situazione, nel momento dello scatto mi tappa l’obiettivo. E allora? Allora posso avere ed usare qualsiasi tipo di macchina fotografica ma se non passa luce all’interno dell’obiettivo, che poi si andrà a depositare sul materiale sensibile, non succede ne succederà nulla, almeno per quello che siamo abituati ad aspettarci come il risultato definito di un’immagine fotografica. Già, la luce. Sempre Lulux, mi benda gli occhi, mi mette in mano un foglio di carta e una matita e mi dice “disegnami il vaso di fiori!”. Non ho dimestichezza con il disegno, ma un’idea del vaso di fiori l’ho disegnata. E’ facile intuire che essendo bendato non ho disegnato ciò che osservavo direttamente, ma l’immagine che ho codificata e rappresentata nella mente del vaso di fiori in questione.

Queste semplici ma fondamentali differenze conducono ad una riflessione; l’essere umano ha una mente sensibile con stratificazioni di depositi culturali, la cui memoria visiva non funziona solo nel saper disegnare, ma ci dirige nel mondo e ci fa percepire quello che definiamo realtà per quello che la cultura umana ha definito per essa e che certifica in continuazione. Lo strumento fotografico no, è si sensibile ma si riempie di depositi di sola luce. Non ci sconvolgerà allora evidenziare una cosa ben strana, cioè che grafìa accompagni, all’interno della locuzione fotografia, foto. In effetti, con un’immagine foto-grafica riproponiamo più o meno la circolarità di azione del nostro sistema visivo, un’immagine che è rapportata a ciò che la nostra mente vede, a ciò che la nostra cultura si immagina di vedere e che tanto bene fa anche nel disegnarla con un gesto ed un senso antropocentrico completo. Un’ipotesi che mi fa piacere pensare; nella prassi del sottrarre se tolgo grafìa, e con essa ciò che è supplente al suo rimpiazzo, la camera oscura, mi rimane solo foto, photos, luce e devo anche considerare che tolta la scatola col buco, ho dei materiali, carta o pellicola che siano, nudi e sensibili all’azione della luce che non controllerò più, non più come un’immagine fotografica.

© Pietro D’Agostino
© Pietro D’Agostino

Se, come abbiamo suppòsto, possiamo fare a meno della macchina fotografica in quanto accessorio non indispensabile alla riuscita della foto, prassi tra l’altro praticata dalla scoperta della fotografia fino a tutt’oggi, e che essa non ha memoria culturale da cui possa emergere un’immagine, cosa succede?  Mi viene spontanea una domanda; cosa mi dice una foto? Innanzitutto mi dice quello che non è; non è un’immagine, non è un referente, non è un indice, non è una rappresentazione né tantomeno una traccia, non è un’analogon né un ready-made; che possa essere materia grezza (hýle), materia prima senza ulteriori definizioni?  Ma perché? Nella foto si materializza, si deposita l’energia luce senza i filtri della nostra mente. In questa consapevolezza non vi è nulla di casuale, di accidentale o automatico, tutti aggettivi riferiti ad azioni non condotte e controllate dall’essere umano; l’esserci è una caratteristica del ‘tutto’ e foto è una modalità dell’auto-determinarsi del ‘tutto’.

Certo, la tecnologia fotografica è un prodotto della conoscenza ma vale la pena di ricordare, solo per fare due semplici esempi di elementi, che sia le cellule melanociti della pelle che l’argento reagiscono spontaneamente e automaticamente alla luce. Chissà se quello che si sta depositando sul foglio di carta-foto che ho qui accanto a me non sia effettivamente hýle?  E così, come un foglio bianco, questo foglio bianco si riempie di depositi culturali, così il foglio di carta foto si riempie di depositi di sola luce. E se il riflettersi nella hýle fosse un atto di deposizione, l’allontanamento da un esercizio di potere, la rimozione da una carica, da un trono, del re, dell’Io? E se la foto non solo ci invitasse a divenire un corpo, materia trafitta, attraversata ed attraversabile, ma anche ad accettare consapevolmente il momento in cui c’è trapasso, trasformazione, come la morte, che non è più logos ma hýle, materia prima grezza senza ulteriori definizioni?  Saremmo disposti e consapevoli a depositarci, ad attraversare questa esperienza?
Alla domanda “che cosa è? cosa vuol dire questa fotografia”? Di solito si risponde descrivendone la progettualità, la realizzazione tecnica con le particolarità ambientali e sociali in cui si è agito e in alcuni casi la risposta è “quello che vuoi tu! o quello che ne percepisci facendola tua”; e se vogliamo considerare da ora una foto? Mi fa piacere pensare che sia hýle, e se qualcuno mi chiedesse “che cos’è” penso che la risposta più appropriata che darei sia “non lo so!“. Non è più cosa posso rappresentare ma che cosa potrei essere?; delle possibili condizioni di esistenza.

© CultFrame – Punto di Svista 05/2011

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