L’altra verità ⋅ Un film di Ken Loach

Prostitute e mercenari, Venere e Marte, sesso e morte. Da sempre esistite (cortigiane e Lanzichenecchi), da sempre ritenute immorali e pertanto esercitate nell’ombra, ai nostri tempi “moderni” e “disinvolti” queste attività sono uscite alla luce del sole, assurte anzi ad uno status socialmente accettato (quando non agognato). Si tratta di un caso esemplare di rivoluzione semantica: è bastato infatti rinominare le categorie suddette “escort” e “contractor” per far sì che il termine anglofono ne mutasse radicalmente la percezione popolare.

Il film di Ken Loach ha il pregio di chiamare le cose con il loro nome e di mostrarne la sempiterna (altra) verità: i “contractors” sono mercenari con licenza di uccidere, per denaro nel migliore dei casi, per godimento psicopatico nel peggiore. Redacted (De Palma, 2007), The Hurt Locker (Bigelow, 2008), Green Zone (Greengrass, 2010): la filmografia sulla guerra in Iraq sembra ripercorrere le stesse, dolorose tappe di quella sul Vietnam, una sorta di lacerante espiazione cinematografica del mai sopito anelito colonialista occidentale, amplificato dall’incombente crisi energetica. E forse L’Altra Verità, pervaso da un’insopprimibile esigenza di chiarezza intellettuale, finisce per cadere in un eccesso di schematismo per cui gli Occidentali sono tutti cattivi, corrotti e senza speranza di riscatto, mentre gli Iracheni si riducono a vittime, senza volto, senza storia, semplici catalizzatori del senso di colpa, meri strumenti narrativi.

Detto questo, il film di Loach mostra la solita schiettezza registica, l’abituale secchezza narrativa cui l’autore ci ha abituati, e mantiene un buon equilibrio tra passato e presente, tra Liverpool e Baghdad, tra amicizia profonda e rivoltante tradimento, tratteggiando emozioni e sensazioni di un legame virile che trascende regole e ragione. L’Altra Verità è quella inutile che si ottiene con la tortura, per cui la vittima è disposta ad ammettere ciò che l’aguzzino vuole sentire, anche se falso. L’Altra Verità è diversa da quella, appagante, dei revenge-movies, genere al quale Loach si accosta con spietata lucidità: la vendetta non sempre ripara il torto e, comunque, non risana mai le ferite dell’anima, ma lascia il vendicatore da solo di fronte al proprio vuoto morale.

© CultFrame 04/2011

TRAMA
Frankie e Fergus sono amici da una vita. Sin dal loro primo giorno di scuola, e per i successivi venti anni, hanno condiviso gioie e dolori. Decisi a dare una svolta economica alle loro esistenze, nel 2004 i due amici vanno a lavorare come “contractors” guardie di sicurezza di appaltatori inglesi in Iraq. Quando Frankie muore lungo la “Route Irish”, una strada a sud di Baghdad lunga circa 12 km che porta dalla Green Zone al centro città, Fergus, invece di ricorrere alla giustizia ufficiale, decide di condurre da solo le indagini per capire i reali motivi che hanno provocato la morte dell’amico. Tuttavia, la scoperta della verità non sarà sufficiente a riportare in lui la serenità di un tempo.

CREDITI
Titolo originale: Route Irish/ Regìa: Ken Loach/ Sceneggiatura: Paul Laverty/ Fotografia: Chris Menges/ Montaggio: Jonathan Morris/ Scenografia: Fergus Clegg/ Musica: George Fenton/ Interpreti principali: Mark Womack, Andrea Lowe, John Bishop, Geoff Bell, Jack Fortune, Talib Rasool, Craig Lundberg/ Produzione: Sixteen Films, Why Not Productions, Wild Bunch/ Distribuzione: BIM/ Paese: G.B., Francia, Belgio, Italia, Spagna, U.S.A., 2010/ Durata: 109 min.

SUL WEB
Filmografia di Ken Loach
BIM

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