Claude Chabrol ⋅ Un ricordo

La scomparsa di Claude Chabrol (1930 – 2010) dà modo a tutti gli amanti del cinema di ripensare a una carriera irripetibile iniziata quasi per caso con Le beau Serge (1958), film realizzato grazie ad un’improvvisa eredità mentre ancora si dedicava alla critica sui Cahiers du cinéma.

Negli ultimi anni abbiamo incontrato più volte Chabrol, l’ultima al Festival di Berlino nel 2009 per Bellamy, film con Gérard Dépardieu protagonista passato quasi in sordina. La sua precedente pellicola, La fille coupée en deux (2007) era stata invece proiettata al Festival di Venezia, suscitando pareri contrastanti per il suo tono ancora più acre rispetto ai precedenti e più ironici lavori dell’autore. Nel 2005 e nel 2006, Chabrol era venuto a Torino per presentare la retrospettiva completa della sua monumentale opera – caso rarissimo di un omaggio distribuito nel corso di due anni – e per dialogare con il pubblico nel corso di due lunghi incontri.
Cinema e cinefilia, letteratura, musica: l’autore aveva intrattenuto generosamente il pubblico raccontando il proprio lavoro e la vita con la verve e quell’ironia tongue in cheek che lo caratterizzavano e che trasparivano dalle sue pellicole. Aveva allora potuto approfondire il suo rapporto con il grottesco, con il gusto per la suspence nutriti dalla passione per i classici della letteratura (da Maupassant a Simenon) ancor prima che dalle visioni cinematografiche.

Di seguito riportiamo un estratto dei dialoghi torinesi in cui rispondendo alle domande dei critici e del pubblico Claude Chabrol raccontò di sé, del suo cinema e delle principali tappe della sua carriera. Chiarendo innanzi tutto la propria filosofia di vita: “Cose come mangiare, bere, fare l’amore fanno parte della natura dell’uomo. Secondo me non bisogna contrariare la vita, mi fa pena chi cerca di andare contro la vita. Essere infelici per colpa propria o di qualcun altro che vuole farti star male è contro natura. Il denaro è uno degli elementi che disturba di più la vita. C’è gente che ha denaro sufficiente per vivere e continua a sottrarne sempre di più agli altri. È una situazione ridicola, che mi sconvolge sempre.”

Tutti sanno che il delitto è il soggetto di quasi tutti i suoi film. Ricordando il suo cortometraggio M. le maudit (1982) si potrebbe pensare che i film di Lang siano stati importanti in questa sua scelta.

Fritz Lang è senz’altro un regista che mi piace ma da cui mi sento diverso. Su di lui c’è ad esempio il famoso sospetto che abbia ammazzato sua moglie [la sua prima compagna], cosa che a me non è mai capitata.
Per me il crimine è un colore, un mezzo che consente di far luce sulla natura umana in modo molto semplice. Grazie al crimine si riesce in un’ora e mezza a far avanzare il pubblico, se ha voglia, nella coscienza di se stesso. Lang lo usava come catarsi, io come mezzo… e l’ho usato forse anche troppo…

Dai suoi film emerge spesso una figura di criminale diversa da quella di Lang, il cui M è guidato da una forza oscura al di sopra della sua volontà.

Non credo che in ogni essere umano vi sia un criminale nascosto ma credo che un criminale possa svegliarsi all’improvviso in un essere umano, come un virus. Il giorno prima non ce l’hai e poi, in un momento in cui sei fragile, ti scopri capace di arrivare fino al delitto. Un criminale non è più criminale di quanto gli innocenti non siano innocenti. Capita che alcuni si trovino davanti al virus e ne siano contagiati, e altri no. I miei criminali sono quasi stupiti di essere giunti a tanto, non sono mai disumani. Ad esempio del personaggio de Le Boucher (Il tagliagole, 1970) si può ben dire che sia un serial killer ma non che sia disumano, al contrario è un uomo simpatico a tutti. Vorrei un giorno riuscire a fare un film su un santo criminale. Cercando bene se ne troverebbe sicuramente qualcuno in giro…

Il tema dell’omicidio caratterizza decisamente la sua produzione, in che modo, secondo lei?

Nei miei film racconto come commettere un omicidio possa capitare proprio a chiunque, tant’è vero che non ritengo un assassino chi uccide una sola volta. Quando capita due volte ci si può appena porre la questione, alla terza se ne è sicuri e alla quarta si può parlare di serial killer. Per superare la qualifica di “serial killer”, invece, bisogna ammazzare veramente una quantità industriale di persone, e solo un capo di stato o un grande generale ci riescono. A quel punto più sono i morti più si cancella il delitto e questo è certamente un gran bel tema, paradossale, ma non ho mai scritto un film in proposito perché non ho mai trovato un intrigo adeguato.

Oltre alla costante del tema del crimine i suoi film sono sempre costruiti in modo perfetto, con un continuo gioco di rimandi dall’uno all’altro. Riesce davvero a tenere tutto sotto controllo?

A differenza di altri registi non m’interessa e non pratico l’improvvisazione. Sono anche un pessimo viaggiatore, ho sempre l’impressione di perder le valigie, l’aereo… Nelle mie sceneggiature cerco sempre di prevedere tutto quanto sarà il film. Mi fido di me, incosciente alla scrittura, cosciente alla rilettura. Solo nel primo film mi è capitato d’aver girato due ore e mezza e, che paradosso!, di dover tagliarne un bel po’ con Rivette che fa sempre film di ore e ore. Ma poi mi son detto che non avrei più fatto nulla di simile e su settanta film avrò tagliato sì e no tre o quattro scene.
L’assassino di À double tour (1959) è l’essere nevrotico per eccellenza che crede di dirigere ogni cosa, come le opere di Berlioz, ma in realtà non lo fa, è solo un disco che suona. Così è il regista, così forse sono anch’io, ma nei miei film cerco soprattutto di trovare qualcosa che gli spettatori non possano sopportare, o che li lasci almeno un po’ perplessi.
A questo proposito mi viene in mente la scena del feretro che ho girato in modo molto simile in due film: in uno che sembra a tutti molto serio perché parla della Resistenza contro i nazisti, La ligne de démarcation (1966), e in un altro che è deliberatamente parodico, La tigre se parfume à la dynamite (1966). La verità è però che avevo ricevuto la sceneggiatura del secondo film mentre stavo girando il primo, e per prendere le distanze da questo ci ho aggiunto una scena simile: così una scena non prevista mi ha permesso di dichiarare in seguito che la parodia stava nel primo e non nel secondo film. La ligne de démarcation è uno delle pochissime cose che ho fatto perché avevo bisogno di soldi e per nessun altro motivo…

La musica è sicuramente una delle sue passioni e lo si nota non soltanto dai lavori che ha dedicato ai compositori Liszt, Saint Saëns e Prokofiev (1978) ma anche dal modo sempre originale e sorprendente con cui la usa nei suoi film…

La musica mi serve sempre per sottolineare qualcosa che nell’immagine non è evidente di per sé e per cercare di creare una complicità con lo spettatore. Bette Davis diceva sempre: “Salgo le scale solo a condizione che Max Steiner non le salga con me”. Steiner era il compositore della Warner, che faceva anche “glu glu” quando la gente beveva. Io al missaggio rompo le palle a chiunque, è la fase del film in cui rompo di più, ma ci lavoro tanto per aggiungere qualcosa a quel che si vede nel film. Per anni il mio ingegnere del suono è stato il nipote del compositore Marchetti e per fargli avere un po’ di diritti d’autore ho messo in moltissimi miei film qualche pezzo di Fascination, composta del nonno e già usata in Arianna (1957) di Billy Wilder.
Prima mostravo sempre i miei film già montati ai miei compositori dicendogli dove dovevano aggiungere la loro musica. Poi per caso mi è capitato d’avere un figlio musicista (Mathieu) e poiché sono molto nepotista, nella Resistenza mi chiamavano Breznev, gli ho chiesto di fare la colonna sonora di alcune mie cose e lui voleva leggere prima la sceneggiatura e iniziare a comporre la musica basandosi su quello che vi trovava scritto. Mi sono accorto che così riusciva ad esprimere meglio quel non detto, spesso in contrapposizione con le immagini, che è quanto m’interessa che le musiche di un film comunichino, a volte sdrammatizzandolo, a volte ridrammatizzandolo. Non riuscirei mai a realizzare un film senza musiche come fa sempre il mio amico Rohmer, tranne nel suo primo film, Le signe du Lion (1959), che però gli ho prodotto io.

L’esperienza della critica da cui proviene le è stata utile per diventare un regista così attento?

L’esperienza della critica è molto più utile di quella ad esempio dell’assistente alla regia. Fare film è un lavoro di sintesi, ma se sai essere anche critico puoi metterci del lavoro di analisi. Il critico analizza i film non la realtà, ma i film parlano della realtà, e il vantaggio di essere un regista critico è quello di riuscire a fare un’analisi sintetica della realtà.
Nell’immagine filmica riescono a stare insieme realtà e apparenza in un continuo scambio che solo il cinema è capace di mostrare. Questo è il tema di molti miei film, come anche in La demoiselle d’honneur (2004), dove ho seguito un personaggio che si confrontava con la sola realtà e uno che viveva solo nel fantastico. Il film è il racconto del passaggio del primo dalla realtà al fantastico, mentre il secondo fa diventare reali le sue fantasie di morte così che quando il primo ci arriva queste sono ormai la realtà. Ripeto che solo in un film si possono mostrare, non raccontare né descrivere, ma mostrare cose come queste. Ed è questo che m’appassiona da tanti anni.

Lei è un cinefilo ma i suoi film sembrano sempre volersi indirizzare al grande pubblico…

I movimenti di macchina s’indirizzano sempre allo spettatore, costruiscono con lui una specie di dialogo, o almeno ci provano. Se tutte le inquadrature sono fisse non c’è più alcuna inquadratura fissa e lo stesso vale se sono tutte in movimento. Io cerco di trasmettere certe cose attraverso una storia, ma ci si può sempre sbagliare. Qualche volta è colpa del regista, qualche volta dello spettatore.

In 50 anni di carriera ha girato più di 70 film con incursioni in generi diversi ma non si è mai cimentato con la fantascienza. C’è una ragione?

In realtà mi sarebbe anche interessato e dirò di più, avevo intenzione di girare un adattamento di I’m a legend di Richard Matheson, che poi fu girato abbastanza bene da un italiano. Avevo pensato anche a un film tratto da un racconto di Philip Dick ma poi mi sono reso conto che passare molto tempo in compagnia di robot e automi sarebbe stato troppo difficile e non mi sarebbe piaciuto, quindi ho rinunciato. Mi pare che al suo posto ho fatto Violette Nozière.

Tra i giovani registi ce n’è qualcuno che considera suo erede?

Nel complesso devo aver fatto quattro o cinque opere perfette e altrettante in cui non sono stato del tutto onesto. Ma a me sembra più che altro d’aver costruito un muro, fatto di tanti piccoli mattoni, e ce n’è ancora un certo numero da sistemare… Tra i giovani registi francesi che potrei considerare miei discepoli perché hanno preso l’abitudine di girare molti film anche non tutti scritti da loro ci sono almeno Patrice Leconte, François Ozon e Benoît Jacquot.

© Silvia Nugara – Claudio Panella
CultFrame 09/2010

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Filmografia di Claude Chabrol

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