I dolori del giovane fotoreporter nel film Triage di Danis Tanovic

Frame dal film Triage di Danis Tanovic
Frame dal film Triage di Danis Tanovic
Frame dal film Triage di Danis Tanovic

Il personaggio centrale di Triage, film di Danis Tanovic, è un fotoreporter irlandese che negli anni ottanta gira il mondo alla ricerca di guerre e immagini crude da vendere alle riviste del suo paese (e non solo). Dopo un’esperienza terribile vissuta in Kurdistan, il nostro eroe tornerà afflitto da un gravissimo problema psicologico che lo porterà a una crisi esistenziale (ma anche fisica) dalla quale uscirà con moltissima difficoltà.
Prendo spunto dall’irrisolto e banale film di Danis Tanovic per dare vita a una riflessione che ha a che vedere con il concetto di fare fotoreportage, oggi, in Italia.  Ho appena affermato come Triage sia un lungometraggio di modesta levatura (per questioni squisitamente filmiche), eppure se proprio dobbiamo evidenziare un pregio di questo film è necessario mettere a fuoco il cuore contenutistico del suo plot: la relazione perversa tra fotoreportage giornalistico e rappresentazione della violenza.

Non intendo fare di tutt’erba un fascio e so perfettamente che esistono fotoreporter che miracolosamente percorrono altre strade, a parte quelle suggerite dalla guerra, dal dolore (altrui), dall’odore del sangue. Eppure, nell’immaginario di chi si avvicina alla fotografia, oggi in Italia, lo stereotipo del fotografo predatore con l’elmetto che si reca lì dove gli altri soffrono e muoiono è decisamente dominante.
La critica che mi viene mossa allorquando sollevo tale problema riguarda sempre la questione del diritto all’informazione e del pericolo della censura. Senza la fotografia, sostengono molti, non si conoscerebbero le brutture del mondo.
Ebbene, analizzando con attenzione questo punto, scaturiscono in maniera quasi naturale alcune considerazioni. In primo luogo, bisognerebbe interrogarsi a fondo sulla natura della fotografia, sul reale rapporto che questa pratica ha con il concetto di realtà. Evitando di cadere nella disputa tra semiologi e detrattori della semiologia, basterebbe avere ben presente cosa vuol dire fotografare. Per quel che mi riguarda, basta descrivere l’atto concreto che compie ogni fotografo quando si trova in presenza di un evento: guarda nel mirino della macchina, seleziona una porzione di realtà (escludendo ciò che resta fuori campo), scatta da un punto di vista preciso (che è uno solo e non tiene conto delle altre innumerevoli direzioni di ripresa possibili). In una fase successiva, il fotografo compie un’accurata selezione delle immagini da mostrare e da vendere. Opera, dunque, una scelta che serve a dare forza solo a ciò che soggettivamente vuole raccontare. Non è già, questa, una forma di censura?
Sarebbe sufficiente ciò a dimostrare come il contenuto di un servizio fotografico sul campo di battaglia non possa essere mai totalmente fedele alla realtà effettiva degli accadimenti. Si può altresì affermare come ogni fotografo agisca spinto non solo dal desiderio di fotografare/raccontare ma anche dalle sue personali visioni politiche, ideologiche, sociali.

Il consenso che molti autori di fotoreportage ottengono è determinato solo dall’adesione perfetta tra interpretazione unidirezionale del fotografo e convinzioni personali del fruitore. Facendo una sorta di outing critico, devo dire che io stesso mi sono accorto che finisco sempre per apprezzare lavori di reportage quando tali lavori sollecitano in maniera profonda la mia visione del mondo, le mie convinzioni politiche. Ma siamo certi che questo meccanismo ci restituisca sempre la verità dei fatti?
Nel mio lavoro sulla fotografia contemporanea italiana, e in particolare sul fotoreportage, sollevare tale problema risulta quasi impossibile. Un tabù.

I giovani fotoreporter sono guidati da modelli che escludono ogni riflessione in materia. Agenzie e photoeditor si relazionano al fotoreportage in maniera totalmente scevra da dubbi. Il loro lavoro appare esclusivamente condizionato dal dio mercato. Tutto deve essere fatto in funzione della vendita e della possibile pubblicazione. Il resto non conta nulla, addirittura in qualche caso non viene riconosciuto come fotografia. Questo sistema ha determinato un impoverimento della creatività, del desiderio di conoscenza, della ricerca e ha fatto divenire lo scatto fotografico pura merce, da vendere e comprare.
Il giovane fotoreporter di oggi muove i suoi passi solo in funzione di una speranza che genera frustrazioni: entrare a far parte di una grande agenzia o passare l’esame di un photoeditor che deciderà non se il suo lavoro fotografico sia valido oppure no ma semplicemente se sia adatto alla linea editoriale del giornale/periodico per cui si lavora. Il lavoro di un fotoreporter, in sostanza, diviene semplicemente tessera di un mosaico puramente commerciale, esattamente come la grafica della copertina di una rivista o la pubblicità interna.
La mia riflessione sul fotogiornalismo mi porta dritto al problema di fondo. In Italia, oggi, fotografia e giornalismo sono praticamente divenuti la stessa cosa. Sembra quasi che non possa esistere fotografia al di fuori del reportage giornalistico, e che il fotografo sia divenuta l’unica fonte di verità possibile. I ragazzi che si avvicinano a questa disciplina finiscono così per vivere (e morire professionalmente) inseguendo questo mito che viene alimentato con sapienza da chi proprio dall’amplificazione di questo mito trae un guadagno (a volte ingente).

Non voglio certo spingermi a eccessi di tipo fondamentalista (tipo abolire il reportage fotogiornalistico), anzi sostengo che il fotogiornalismo sia importante e spesso utile, quando sia basato sull’etica del fotografare e quando risponda a criteri deontologici molto precisi.
Basterebbe riportare tutto alla giusta dimensione e dire ai fotografi che iniziano a scattare che fotogiornalismo e reportage di tipo sociale sono solo due piccoli settori di una disciplina espressiva molto più ampia di quello che viene fatto credere.
Si tratta di una questione molto seria (per il nostro ambiente ovviamente) che ha determinato in Italia un arretramento imponente della cultura della fotografia per far posto all’ossessione della professione del fotografo, che intesa nel modo sopra descritto, non è altro che un mestiere borghese (anche un po’ triste), un’attività mercantile fine a se stessa. Non sarebbe meglio allora avere un posto a sedere in una scrivania, in un ufficio? Lavorare per una multinazionale in giacca e cravatta o fare fotografie per un’azienda editoriale dominante o un’agenzia, a sua volta dominante, in tuta mimetica per quel che mi riguarda è la stessa identica cosa.
La fotografia come forma di espressione sta da un’altra parte.

© CultFrame – Punto di Svista 10/2010

 

0 Shares: