Informazione, fotogiornalismo e separazione di classe

pulitzer_awardEsiste un’etica del fotogiornalismo? Ci sono dei limiti riguardo la rappresentazione del dolore? Lo sguardo del fotografo deve essere guidato da fattori di tipo deontologico? Sussiste il pericolo della censura, della rimozione “politica” di immagini scomode? Oppure, all’opposto, è riscontrabile nel mondo del fotogiornalismo un tipo di speculazione espressiva che giova solo ed esclusivamente alla carriera del fotografo che ha fatto click nel posto giusto, al momento giusto?

 

La rivista CultFrame e l’associazione Punto di Svista riflettono da diverso tempo su questi argomenti, cercando di scansare sistematicamente tutti i luoghi comuni imperanti nel mondo del fotogiornalismo, sempre più rutilante vetrina di fotografi e “luogo” nell’ambito del quale il personalismo e il sensazionalismo stanno prendendo piede. L’impressione è che il fotogiornalismo sia da tempo un contenitore ormai vuoto, dietro cui si nascondono operazioni di marketing professionale: una sorta di alibi accettato e alimentato dal sistema dell’informazione. Un fotogiornalismo caratterizzato da “star dello scatto” che si costruiscono una solida fama attraverso servizi dal grande impatto emotivo, e ovviamente politically correct fino allo spasimo, e che poi monetizzano attraverso altre operazioni banalmente mercantili (mostre, corsi e workshop, in genere) non può che spingere l’informazione visiva verso una penosa deriva.

Il problema è che lettori di giornali, fotoamatori, appassionati, finiscono per non comprendere più quale sia la vera sostanza del fotogiornalismo; tale sostanza è molto più limpida di quanto possa sembrare e nulla ha a che fare con i macroscopici personalismi in voga negli ultimi anni.

Non ci addentreremo ora, in una riflessione sulla corretta natura del fotogiornalismo, ma vogliamo cercare di riflettere prendendo come spunto di discussione il lavoro con il quale il reporter del Miami Herald  Patrick Farrell si è aggiudicato la sezione “Breaking News Photography” del premio Pulitzer.

Non intendiamo mettere in dubbio la buona fede dell’autore in questione (su cui fino a prova contraria non possiamo dire nulla), né sminuire il senso del Premio Pulitzer. Cercheremo solo, attraverso alcuni esempi, di mettere in luce come all’interno di servizi fotografici fatti senza secondi fini si possano annidare inconsapevolmente stereotipi e immagini il cui senso è estraneo al concetto di informazione.

Le opere  in questione sono state pubblicate con grande risalto anche da Repubblica.it e naturalmente stanno facendo il giro del mondo così come capita in queste occasioni.

 

Il lavoro di Farrell documenta gli esiti devastanti dell’uragano che ha sconvolto Haiti nel 2008. Le caratteristiche di questo fotoreportage sono quelle tipiche degli ultimi anni, caratteristiche che si sono trasformate nel tempo in veri e propri stilemi facilmente riproducibili da qualsiasi fotografo, anche dilettante: bianco e nero drammatico, forti contrasti e sgranature, uso di obiettivi grandangolari spinti, raffigurazione senza limiti del dolore e della morte. Di reportage di questo tipo negli ultimi dieci anni se ne sono visti a centinaia: tutti uguali, tutti iper spettacolari, tutti estremi, tutti drammaticamente estetizzanti. Ma si può dire di più, semplicemente andando ad analizzare tre scatti specifici.

Il primo. Un’inquadratura dall’alto mostra nella parte bassa dell’immagine i cadaveri di ben undici bambini morti durante l’uragano. Nella parte superiore si vedono invece alcuni adulti in piedi con i volti sconvolti.

Il secondo. In primissimo piano è inquadrata la mano di un cadavere mentre sullo sfondo, sfocato, si vede il volto di un bambino morto.

Il terzo. Un bambino completamente nudo è ripreso a figura intera mentre sporco di fango spinge una carrozzina rotta.

Sorvoliamo per motivi di spazio, su questioni di carattere meramente estetico e diciamo solo che stilemi come la dialettica tra fuoco e fuori fuoco, uso enfatico del primissimo piano, dilatazione cripto espressionistica provocata dal contrasto e dagli obiettivi grandangolari, sono incompatibili con sia il “fotogiornalismo-testimonianza” sia con un concetto fotografico di tipo solidaristico.  

In questo casi, infatti, l’utilizzazione stereotipata di taluni elementi linguistici visuali finisce per prevalere nettamente sul contenuto dell’immagine e per generare in chi guarda la sensazione di confrontarsi con una fotografia che potrebbe essere definita “bella”.

Ora, ci domandiamo che cosa effettivamente documentino opere di questo tipo. La distruzione? Il dolore? La nostra impressione è che si vada ben oltre il dovere di informazione. Se fotogiornalismo è sinonimo di documentazione e testimonianza di fatti accaduti, questo genere di fotografia ci fa vedere invece qualcosa di diverso: cioè le atroci sofferenze, totalmente private, di individui e bambini inermi, alcuni dei quali morti, le cui immagini sono esposte senza filtri allo sguardo di cittadini benestanti, che magari leggono il giornale comodamente seduti nella bella poltrona di casa. Per testimoniare gli esiti di un cataclisma è necessario mostrare il corpo irrigidito del cadavere di un bambino? Le persone vive ritratte dall’obiettivo fotografico sono consapevoli che le loro immagini saranno pubblicate sui giornali di mezzo mondo?

 

Siamo alle solite. La raffigurazione del dolore altrui e della morte, sempre altrui, finisce per divenire testimonianza non dei fatti ma della differenza/separazione di classe, tra il mondo ricco e quello povero. Attenzione, non testimonianza intesa come denuncia politica, ma semplicemente come “certificazione” di una diseguaglianza sociale sempre più estrema. Il mondo ricco guarda il mondo povero, lo fotografa, lo sbatte sui giornali, e lo utilizza per scopi che nulla hanno a che fare con la tragedia umanitaria che si dovrebbe testimoniare.

Si ricade dunque sempre nell’annoso problema dello “sguardo colonialista”: il fotografo di un paese  ricchissimo possiede i soldi (molti) per andare sui luoghi delle tragedie e per costruire professionalmente un lavoro fotografico sulle disgrazie altrui, lavoro che ovviamente sarà venduto generando un profitto. Il potere che il fotografo ricco ha sui diseredati della terra è immenso: li può infatti riprendere senza problemi in tutta la loro povertà, trasformandoli di fatto in oggetti. Dove è finita la pietà umana? Dove è finita la questione centrale della scelta del fotografo di pubblicare o no un’immagine? E il rispetto per la dignità degli individui? E lo stesso fotografo (ricco) tratterebbe in ugual modo un cataclisma naturale avvenuto in un paese europeo o nordamericano? Fotograferebbe i cadaveri di bambini senza poi imporre all’editore del suo giornale di oscurarne il volto?   

 

Sembra sempre più necessario che giornalismo e fotografia facciano un esame di coscienza (collettivo) riguardo la strada che è stata intrapresa, una strada che sembra aver perso quell’umanità che dovrebbe guidare lo sguardo, non solo dei fotografi, ma anche dei semplici cittadini, questi ultimi ormai non più in grado di comprendere la differenza tra documentazione del dolore e spettacolarizzazione colonialista della sofferenza.

Rimane sempre chiara nella nostra mente la straordinaria lezione di Claude Lanzmann, filosofo e cineasta che si è sempre rifiutato nell’ambito del suo lavoro di analisi e studio della Shoah di mostrare nei suoi documentari le immagini dei cadaveri trovati da americani e russi al loro ingresso nei campi di sterminio nazisti. Per narrare il dolore e la morte di inermi non c’è bisogno di mostrare il vergognoso oltraggio che è stato fatto dei loro corpi. È  per questo che il documentario di Lanzmann Shoah è una delle maggiori opere intellettuali del secolo scorso. Per il rigore morale con il quale è stato realizzato, per il rispetto assoluto della dignità di coloro i quali hanno sofferto.

 

I fotogiornalisti di oggi si sono mai posti seriamente questi due problemi?


©CultFrame 04/2009
 

 

LINK

CULTFRAME. Informazione, fotogiornalismo e sofferenza umana

Le fotografie di Patrick Farrell su Miami Herlad

Premio Pulitzer- Il sito

 

0 Shares: