Ugo Mulas ⋅ Maestri della Fotografia

Copertina del libro La fotografia di Ugo Mulas

Ugo Mulas. 1928 (Pozzoleng, BR) – 1973 (Milano)

L’intera vicenda artistica di Ugo Mulas è circoscritta in un arco temporale di poco meno di un ventennio, durante il quale egli lavora molto intensamente, trasformando un iniziale interesse per l’arte piuttosto generico in un rapporto con essa sempre più stringente, che lo porterà infine a tentare una definizione puntuale del proprio strumento d’espressione in relazione all’arte stessa.

I suoi inizi improntati ad un classico reportage sociale, sia pure distante dalle mode dell’epoca, perché in polemica con l’assunto bressoniano del “momento decisivo” – considerando egli ogni attimo irripetibile e quindi “decisivo” – non lasciano presagire i successivi sviluppi: sono, infatti, ancora incerti tentativi “di stabilire un contatto fotografico con la realtà” attraverso immagini melanconiche, dal gusto neorealistico, nelle quali uomini ridotti a ombre lontane tirano letteralmente la carretta per vivere, spersi fra le nebbie della misera periferia milanese di quegli anni. La stessa nota serie di scatti al Bar Jamaica, definita dall’autore secondaria, non mostra più che un approccio incuriosito nei confronti dei pittori emergenti che si riuniscono in quella specie di “latteria”, come avevano fatto un tempo i loro illustri colleghi dada nei caffè parigini; malgrado qualcuno vi abbia ravvisato i segni precoci di “un’attenzione al problema del personaggio”, il fotografo consapevole della peculiarità degli atteggiamenti artistici, che una diecina di anni dopo fotograferà Duchamp, è ancora di là da venire.

La frequentazione del Jamaica e dei suoi avventori, ad ogni modo, ha avuto di certo un peso non indifferente sulla formazione di Mulas, che lì si ritrova immerso nel dibattito fra realismo e astrazione, così vivace in quegli anni. Pur non essendo la sua visione della fotografia all’inizio diversa da quella di un qualunque fotoamatore, che si concentra più che altro sugli aspetti tecnici della macchina fotografica, e sulle potenzialità della camera oscura, per produrre immagini documentarie “corrette”, una rapida maturazione in lui di nuove e più profonde esigenze appare già chiara nel primo vero lavoro da fotogiornalista, il reportage della Biennale di Venezia del 1954. Qui l’attenzione di Mulas è sì, come pare logico vista la natura commerciale di questo lavoro, rivolta alla rappresentazione del particolare clima da grande manifestazione mondana oltre che culturale, ma ciò non lo distoglie dal proporre un suo punto di vista interno all’evento artistico, valorizzando soprattutto la ripresa di momenti d’allestimento delle sale, e di aspetti fruitivi delle opere. Un modus operandi che lo accompagnerà in ogni successivo reportage delle Biennali: spesso avrà occasione di ritrarre negli spazi espositivi illustri visitatori quali noti critici e galleristi in muto dialogo con gli oggetti artistici esposti, ma ancora più frequentemente artisti, accanto alle proprie opere; fra quest’ultime e i loro autori pare cercare una relazione, per così dire, di “rispecchiamento” fisico o comportamentale.

Del suo lavoro alle manifestazioni veneziane Ugo Mulas scriverà: “ho sempre più precisato l’aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell’esibire e dell’esibirsi, che nei pittori non mancava di aspetti autopubblicitari… il mio non poteva essere un atteggiamento critico, non c’era da capire quanto da registrare”. Con l’edizione del 1964, caratterizzata dall’irrompere dei Pop Artist americani, la Biennale toccherà, per lui, il culmine, cui seguirà l’inevitabile declino e la fine rappresentata dalla contestazione del ‘68: “la mia ultima foto, in certo modo, è quella di un pittore trascinato via da un gruppo di poliziotti sotto i portici del caffè Florian, in un ammasso di elmetti e manganelli”.

In realtà, dopo quella fotograferà altre due edizioni, ma tutto è cambiato fuori e dentro di lui che sa di essere gravemente malato: all’inizio degli anni Settanta l’arte contemporanea, e l’ultimo Mulas, che ne è fortemente influenzato, si esprimono attraverso il linguaggio della concettualità.

Alla notizia della sua morte, la stampa si prodigherà nella celebrazione di questo fotografo così particolare, e andrà avanti per oltre un anno nel tentativo di incasellare in qualche modo il suo lavoro. I titoli di due articoli, apparsi sul “Corriere della Sera” nei giorni immediatamente successivi quello della sua scomparsa, in particolare, offrono spunti di riflessione sul tipo d’interpretazione che si dà in quel momento all’opera di Mulas: l’uno afferma che egli “usava gli obiettivi con l’arte del pittore”, l’altro che era stato “fotografo dei pittori”. Così il suo lavoro viene talora innalzato alla dignità di creazione originale, subordinata però in qualche modo all’Arte (“con la a maiuscola”); talora ridotto all’interno della cosiddetta “Fotografia d’arte”, riconoscendo comunque all’autore non poca abilità nel documentare e interpretare l’arte altrui. Definizioni entrambe restrittive, che non gli rendono giustizia.

È abbastanza scontato che Mulas, avvicinandosi alla fotografia, manifesti subito un particolare interesse verso soggetti come gli artisti e l’arte: è al Bar Jamaica, dove ancora studente dell’Accademia di Brera “bivacca” fra quei pittori che per lui sono un po’ colleghi un po’ modelli da emulare, che si ritrova a fotografare quasi per caso. All’inizio non fa altro che ritrarre la propria cerchia di amici e conoscenti. In realtà, visti i contatti e le relazioni che stabilisce durante le Biennali, si può dire che continuerà a far così anche in seguito. In fondo, Mulas si trova sempre ad agire fra pari e scatta con occhio esperto ed informato; non è mai un semplice testimone con in mano uno strumento neutrale di registrazione della realtà, malgrado per tanto tempo pretenderà di esserlo.

Come egli stesso avrà poi modo di notare, proprio questa sua voglia di non intervenire e di non giudicare, diventa un punto di vista molto evidente, e addirittura una cifra stilistica personale. Il suo approccio non è studiato, dunque, ma istintivo, almeno fino al suo primo viaggio in America dove, oltre a calarsi nella più fervida atmosfera creativa del momento, ha con Robert Frank un incontro illuminante riguardo all’acquisizione di una consapevolezza del proprio operare.

Nell’accostarsi ai vari discorsi artistici contemporanei, Ugo Mulas rivela un’attitudine da critico d’arte, che passa al vaglio del mezzo fotografico operazioni eterogenee fra loro per capirle e spiegarle secondo una propria sensibilità ermeneutica. “Davanti alla fotografia”, scriverà, “ci si trova spesso come di fronte a un pensiero senza linguaggio, inespresso; si possono avanzare mille supposizioni, ma non si è sicuri di centrare la giusta”, tuttavia, aggiunge citando un noto etologo, “anche usando le parole l’immagine del pensiero può solo trasparire, non mostrarsi nella sua medesimezza”. Egli riconosce quanto la sua posizione di fotografo sia delicata, avendo egli a disposizione un linguaggio “non verbale” per cercare di trasmettere l’essenza di un altro linguaggio anch’esso puramente visuale (e difficilmente verbalizzabile, se non rischiando di tradirne il vero senso), quale è quello dell’arte.

La soluzione che Mulas sceglie, dinnanzi alla specificità delle diverse situazioni che gli si presentano, è quella di cambiare atteggiamento di fronte a ciascun artista, così il “fotografare si risolve in uno studio sul comportamento”. L’atteggiamento dell’autore rivela l’intenzione insita nell’opera, ne diventa quasi chiave di lettura. Ciò traspare dalla maggior parte dei ritratti che fa a pittori e scultori nei loro studi, di fronte alle proprie opere, quando non addirittura nell’atto di crearle.

Così operando, immerso in un clima culturale nel quale i quesiti sull’essenza del fare artistico e sulla definizione stessa di ciò che è arte sono al centro delle prassi creative non meno che dei discorsi critici, egli si avvia alla sua ultima e più nota serie d’immagini, con la quale intende chiosare l’intera sua carriera, molto più che con gli scritti apparsi nel libro “La Fotografia”, pubblicato nel ‘73, anno della sua morte.

Forse per una voglia di far ordine nelle proprie cose, forse per un desiderio di affrancarsi da un certo ruolo, nell’ultima fase della propria vita Ugo Mulas abbandona il realismo e la rappresentazione della realtà, e si dedica a trasformare – con un’operazione metalinguistica degna della migliore Arte Concettuale – i propri interrogativi sulla natura della Fotografia in veri e propri oggetti artistici.

Presentate, nella forma d’immagini di grande formato montate su alluminio e incorniciate in plexiglass, come a sottolinearne il carattere di opera d’arte contemporanea, “Le Verifiche” sono un progetto che Mulas porta avanti fra il 1971 e il 1972: si tratta di quattordici foto, ciascuna delle quali è il risultato di una precisa “operazione fotografica”, il cui scopo – scrive il loro autore – “era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in se stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico”.

Un titolo ed un testo scritto, come pure (quasi sempre) una dedica, spiegano puntualmente l’idea sottesa ad ognuna di queste operazioni. Apre la serie un “Omaggio a Niepce”, che indaga, attraverso la “stampa a contatto” di un rullo vergine sviluppato, il grado zero della scrittura fotografica ossia la superficie sensibile; la chiude un’immagine, dedicata a Marcel Duchamp, identica alla prima, se non fosse per il fatto che il vetro, posto per premere le strisce di pellicola e per riquadrare la composizione, qui è stato spezzato a simboleggiare la fine della serie stessa, come pure una rottura col passato. Fra questi due estremi l’autore iscrive ciò che per lui è la Fotografia, i suoi elementi costituitivi e il loro valore intrinseco: dal Tempo, che altrove si era manifestato sotto forma di narrazione per sequenze e fermi immagine, e che qui si riduce ad ossessiva ripetizione; allo Spazio, che qui è “dimensione idealizzata” in una foto non scattata; fino all’autoritratto, “ossessione di essere presente”. Ogni elemento fondamentale della pratica fotografica è messo a fuoco con acutezza intellettuale.

Con quest’opera, figlia del proprio tempo, ma tutt’oggi gravida di spunti, Ugo Mulas si consacra infine artista, oltre che teorico del proprio mezzo d’espressione, e ci lascia il suo contributo più interessante ed originale.

BIOGRAFIA

Ugo Mulas nasce a Pozzolengo, nel Bresciano, il 28 agosto del 1928; suo padre, contadino, si era trasferito lì dalla Sardegna in cerca di miglior fortuna, sognando di possedere un pezzo di terra tutto suo, ma all’arrivo della guerra vi aveva rinunciato per far studiare i figli. Pur vivendo le ristrettezze del periodo, il giovane Mulas può, dunque, frequentare il Liceo Classico di Desenzano del Garda conseguendo la Maturità.
Nel 1948, desiderando proseguire gli studi, si trasferisce a Milano, dove trova un impiego come istitutore per mantenersi. Sceglie d’iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza, probabilmente per accondiscendere ai desideri della famiglia, ma i suoi interessi sono in realtà tutti rivolti verso la poesia e la letteratura, tanto che nel corso dei tre anni successivi egli matura una crisi che lo porta a contemplare con orrore un probabile mediocre futuro da impiegato di banca, una volta laureato. Contemporaneamente comincia ad appassionarsi alla pittura e decide di frequentare i corsi serali della “Libera Scuola del Nudo”, all’Accademia di Belle Arti di Brera, rinunciando infine alla laurea.

E’ il 1953, l’ambiente artistico milanese, nel quale si ritrova d’un tratto immerso, è particolarmente vivo, diviso tra Realismo e Astrattismo, aperto alle nuove tendenze internazionali e alle suggestioni della Concettualità. L’incontro fatale con la fotografia avviene in un bar di via Brera; più tardi Mulas lo racconterà così: “Ero uno studente, bivaccavo quasi sempre in quella specie di caffè che era allora il Jamaica, una latteria dove si riunivano dei pittori. Qualcuno m’ha prestato una vecchia macchina e mi ha detto: – Un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque-sei all’ombra – E io, con un’enorme diffidenza, ho preso in mano questa macchina”.

E’ un incontro quasi fortuito, probabilmente legato ad aspirazioni giornalistiche, dato che in quel periodo Mulas ha trovato impiego in un’agenzia fotografica nel palazzo dei giornali di Piazza Cavour; scrive didascalie e brevi pezzi, si occupa occasionalmente di ricerche iconografiche, ma anche questa vita non ha da offrirgli prospettive allettanti, perciò si ritrova presto disoccupato, nuovamente alla ricerca d’altro. S’imbatte allora per caso in Mario Dondero, giornalista fotoreporter, col quale crea subito il sodalizio che lo porterà nel ’54, per la prima volta, alla Biennale di Venezia. Sarà quello il suo esordio come fotografo professionista; prima di allora si era arrabattato, lavorando persino con macchine fotografiche prese in prestito, finché alcuni amici non gliene regaleranno una. Affascinato dal cinema neorealista, i suoi soggetti preferiti, a quel tempo sono i personaggi che animano il suburbio milanese, miseri lavoratori spesso avvolti in atmosfere brumose o fioche luci notturne.

La Biennale di Venezia del 1954 segna per Mulas un passaggio decisivo: egli, infatti, si confronta per la prima volta con una tematica che gli sarà sempre particolarmente cara, quella della fotografia d’arte. Sarà poi per questo chiamato “il fotografo degli artisti”, ma in realtà non si limiterà mai a ritrarli accanto alle loro opere, o a documentarne pedissequamente il lavoro, vorrà invece principalmente render conto dei meccanismi dell’invenzione, e del senso di tali opere.

Nello stesso tempo ci lascerà una testimonianza molto concreta del clima di quella e delle Biennali successive fino al 1972, che saranno per Mulas un appuntamento fisso; di esse fotograferà ogni aspetto saliente, dall’allestimento delle sale da parte di operai e sarte a tutto il contorno di vita mondana e di riunioni di artisti, critici e galleristi presso i caffè cittadini. Scorci dell’ambiente artistico dell’epoca, ma non solo: veri e propri specchi di un periodo storico di rapidi cambiamenti, che culmineranno in una forte tensione sociale e nei disordini della manifestazione del ‘68, puntualmente colti dalla sua fotocamera. A partire dal ’55, egli comincia a lavorare come fotoreporter per vari settimanali, facendosi notare, fra gli altri dal critico Pietrino Bianchi, grazie al quale collaborerà con “L’Illustrazione Italiana”. Per questa e per giornali come “Settimo Giorno”, “Novità” (Vogue), “Domus”, “La Rivista Pirelli”, “Du”, nel ’60 realizza vari reportage in giro per l’Europa insieme a Giorgio Zampa, documentando anche un’inedita quotidianità russa, al di là della “cortina di ferro”.

Il suo lavoro s’intensifica durante anni Sessanta. Mulas s’interessa anche di teatro e lavora con Giorgio Strehler al Piccolo di Milano, sperimentando la brechtiana poetica dello straniamento: di quest’esperienza ci resta un’interessante serie di foto di scena per “Vita di Galileo”. Successivamente collaborerà pure con Puecher agli allestimenti scenografici, costituiti da immagini proiettate, per le opere “The turn of the screw” di Benjanim Britten, e “Wozzek” di Alban Berg, andate rispettivamente in scena alla Piccola Scala di Milano e al Teatro Comunale di Bologna. Per la scenografia della seconda, nel ’69, egli fotograferà una desolata periferia milanese fatta di torri per l’energia elettrica, depositi di rifiuti, lavori in corso per la circonvallazione, ex canali d’irrigazioni trasformati in fogne a cielo aperto.

La riuscita di queste incursioni nel mondo del teatro, tuttavia, non lo distoglie dalla sua indagine sul “fare” artistico, che rimane sempre al centro dei suoi interessi e della sua produzione. I suoi legami col mondo dell’arte diverranno anzi sempre più forti e fruttuosi.

Nel ’62 a Spoleto si organizza una grande manifestazione, che coinvolge i maggiori scultori internazionali nella realizzazione di lavori creati apposta per una mostra, il cui percorso si snoda per le vie e le piazze cittadine. Mulas documenterà con la consueta acutezza l’inserimento di tali opere nel tessuto urbano, ma prima ancora non si lascerà sfuggire l’occasione di seguire la nascita di alcune fra queste sculture.
La sua macchina fotografica diventa in quest’occasione uno strumento di analisi critica: attraverso i propri scatti, instaura un confronto fra il modus operandi di David Smith e quello di Pietro Consagra; e sottolinea come le location stesse, scelte dai due per “creare”, nel caso del primo le officine in disuso dell’Italsider di Voltri, in quello del secondo una moderna fabbrica, si trasformano in una chiave di lettura dei rispettivi atteggiamenti artistici.

Sempre a Spoleto Ugo Mulas incontra Alexander Calder e ne diventa grande amico; lo ritrarrà poi sia nella sua casa americana di Roxbury, sia nel suo atelier a Sachè in Turenna.

Al 1962 risale anche una sorta di tributo all’antico amore per la Poesia: l’illustrazione dell’opera di Eugenio Montale, in particolare di “Ossi di Seppia”, con fotografie caratterizzate dalla scelta d’insoliti punti di vista e da un intenso lirismo.

Quasi fosse presagio del breve tempo che la vita gli avrebbe concesso, per tutto il decennio lavora freneticamente. Realizza la celebre sequenza, peraltro costruita, sulla creazione dell’opera “Attesa” di Lucio Fontana; ritrae i più noti artisti italiani, fra i quali Burri, Consagra e Melotti, ma anche Ungaretti, Pasolini, Visconti.

Avendo incontrato alla Biennale del ’64, il critico Alan Salomon e il gallerista Leo Castelli, decide di risalire col loro aiuto alla fonte delle maggiori tendenze dell’Arte Contemporanea, penetrando nei “santuari” dell’arte newyorkese. Nel corso di tre successivi viaggi negli States, fra il 1964 e il 1967, raccoglierà una documentazione davvero illuminante dell’opera di personaggi del calibro di Jasper Johns, Frank Stella, Segal, Lichtenstein e Warhol; di quest’ultimo scriverà Mulas: “è sicuramente riuscito a mettere in crisi le mie idee sulla fotografia, quello che pensavo del cinema, e in fondo i miei rapporti con la pittura”.

Negli anni, Mulas pubblica diversi libri, fra i quali, nel ’67, “New York: arte e persone”, con un testo di Alan Salomon. Quel libro uscirà anche all’estero, come accadrà più tardi pure al suo volume su Calder; scatti dello stesso portfolio verranno esposti quello stesso anno in una personale presso la nota Galleria Il Diaframma di Milano.

Nel 1970 scopre di essere ammalato di tumore. Nell’arco di tempo che lo separa dalla morte si dedicherà intensamente a far ordine nella propria opera, scrivendo importanti pagine di commento al lavoro già svolto, ed impegnandosi in quella riflessione critica sul significato e sulle modalità del medium fotografico, che prenderà sostanza e forma nelle cosiddette “Verifiche”. Saranno queste una sorta di testamento spirituale, oltre che un fondamentale lascito a quanti si sarebbero interrogati dopo di lui sulla fotografia. Muore a Milano il 2 marzo del 1973.

© CultFrame 06/2006

BIBLIOGRAFIA

– Mulas, U., Smith, C., Giménez, C., David Smith in Italy, Catalogo della mostra (Milano, Pradamilanoarte, 1995). Ediz. italiana. Charta
– Mulas, A., (A cura). Ugo Mulas, Edizioni Galleria di Franca Mancini, 1995
– Celant, G., Ugo Mulas, Federico Motta Editore, 1993
– Trini, T., Ugo Mulas – Vent’anni di Biennale, Arnoldo Mondadori Editore, 1988
– Mulas, U., Ugo Mulas: fotografo 1928 -1973, Fondation Suisse pour la Photographie, 1984
– Mulas, U., Ugo Mulas fotografo, Kunsthalle, 1974
– Mulas, U., Sculptures by Arnaldo Pomodoro, Mazzotta, 1974
– Mulas, U., La fotografia, Giulio Einaudi Editore, 1973
– Quintavalle, A.C., Mulas, U., Immagini e testi, Parma, Istituto di Storia dell’Arte, 1973
– Consagra, P., Mulas, U., Eco, U., Fotografare l’Arte, Fratelli Fabbri Editore, 1972
– Mulas, U., Solomon, A., New York – arte e persone, Longanesi & C., 1967
– Mulas, U., Ballo, G., Aik Cavaliere, Ed. Galleria Schwarz – Fratelli Pozzo, 1967

SUL WEB
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