Cindy Sherman ⋅ Maestri della fotografia

Copertina del libro “Cindy Sherman: Photographic Works 1975-1995” pubblicato da Schirmer/Mosel

Cindy Sherman. 1954 (Glen Ridge, New Jersey)

La sfuggevole complessità di Cindy Sherman, e la sua controvertibile posizione intellettuale, sembrano simboleggiate con grande acume da un “ritratto”, che Annie Leibowitz dedica alla collega anni or sono: in esso, per la “legge del contrappasso”, sembra perfettamente logico che debbano apparire una dozzina di donne dai capelli corti, e in abiti maschili, contro un fondo totalmente neutro.

Sono di varia natura i problemi che sorgono tentando di analizzare la sua opera multiforme, ma sempre intrinsecamente coerente.

Va premesso, innanzi tutto, che Sherman ha definito se stessa non una fotografa, ma piuttosto un’artista performativa, e le sue immagini sono state definite dal critico Verena Lueken “performance congelate”. Il suo uso del medium fotografia è, però, per così dire, spiccatamente “fotografico”: i suoi scatti non sono semplice documentazione di performance, che hanno vita propria. Le sue messe in scena viceversa nascono per essere riprese dalla macchina fotografica e sono strettamente condizionate dal codice linguistico peculiare al mezzo: composizione, formato, inquadratura, uso espressivo delle ombre o dei colori.
Il percorso artistico di Sherman s’inserisce in ogni caso nelle tendenze, diffuse presso le neoavanguardie degli anni Settanta, all’indagine metalinguistica e all’uso di riferimenti puntuali alla cultura popolare.

La sua prima opera di rilievo, Untitled Film Stills, prende spunto dai più triti schemi della comunicazione cinematografica, rappresentati da Sherman come “pose” tratte da immaginari film degli anni Cinquanta, stranamente familiari grazie alla tipicità delle situazioni e dell’aspetto delle protagoniste, impersonate sempre dall’autrice: un’operazione d’indubbio fascino ed interesse visivo, accolta con entusiasmo da molti critici, ma che risulterà però agli occhi di molte femministe ambigua e discutibile.

Allo scorcio degli anni Settanta, è in corso, infatti, un aspro dibattito sulla predominanza di una cultura maschile (e maschilista) dalla quale le intellettuali sono chiamate a prendere le distanze, anche con l’uso di linguaggi espressivi più consoni alla sensibilità femminile, allo scopo di creare una cultura alternativa. La posizione di Sherman, in tale contesto, è considerata, contrariamente alle sue affermazioni, del tutto acquiescente verso gli stereotipi imposti alla donna dalla società: l’operazione della fotografa (che già in quanto tale non è vista di buon occhio, perché si serve d’un mezzo tradizionalmente maschile, legato ad una percezione prettamente visiva del mondo, tipica dell’uomo) sembrerebbe anzi consolidare tali cliché, piuttosto che opporvisi.

Le donne di Sherman sono chiaramente tipi e non donne reali, così come sono tipiche le ambientazioni da film che le accolgono, ispirate ai “B movie” (pellicole di second’ordine). La sua interpretazione è parodistica, ma sarebbe colpevole secondo le femministe di non introdurre nelle proprie immagini nessuna chiara presa di posizione politica e culturale, limitandosi a ripresentare l’ennesima “proiezione dell’inconscio maschile”.

Nelle 69 immagini di piccolo formato in bianco e nero, che costituiscono “Untitled Film Stills” appaiono prefigurati la maggior parte dei temi che caratterizzeranno le sue successive creazioni artistiche: l’uso del travestimento; la parodia degli stereotipi imposti dalla società alla donna; il ricorso ad immagini mutuate da un immaginario mediatico comune; l’imitazione di codici linguistici appartenenti alla cosiddetta sottocultura; lo “spaesamento” delle ambientazioni.

Copertina del libro “Early Work of Cindy Sherman” pubblicato da Glen Horowitz Bookseller

Al primo lavoro fa seguito una seconda serie dedicata ancora al cinema ed i suoi finti paesaggi costituiti da retroproiezioni (“Rear Screen Projections”): è da notare come l’uso del colore, introdotto in queste fotografie, abbia la funzione di staccare la protagonista dal fondo; i suoi atteggiamenti rimangono invece come negli scatti precedenti inconsapevoli dell’osservatore, al quale viene dunque proposto un ruolo voyeuristico.

Per la rivista “Artforum” Sherman crea nel 1981 “Centerfolds or Horizontal”, una delle sue opere più contestate, nella quale indaga i codici visivi della fotografia creata per le riviste pornosoft, e dove l’immagine della donna grazie ad inquadrature orizzontali e a riprese dall’alto risulta fragile ed umiliata. Quasi in risposta alle critiche nasce invece “Pink Robes”, gruppo d’immagini con un tema analogo, nelle quali al contrario un formato verticale, lo sguardo diretto all’obiettivo e l’espressione della modella, nonché l’uso più espressionistico del colore, forniscono una chiave di lettura ben diversa.

Stesse modalità adotterà per le foto di moda che le vengono commissionate a più riprese da stilisti e riviste del settore, nelle quali l’accento è posto, oltre che sulla bizzarria delle modelle, su una particolare impressione di artificialità da mascherata.

L’uso del travestimento ricorre ossessivamente nell’opera di Cindy Sherman, ed è stato interpretato, oltre che come una ricerca all’interno di un discorso sul gender, come una ricostruzione dell’identità personale in un continuo sdoppiamento (coerente, comunque, all’istanza di “decostruzione” dei vari linguaggi artistici, che miticamente – e psicanaliticamente – nascerebbero dalla contemplazione dello specchio e nella formazione di un doppio, altro da sé).

I richiami alla psicanalisi, ancor più che all’analisi proppiana della favola (grazie alla quale non appaiono riferimenti diretti ad alcuna storia nota, ma il genere letterario appare evocato attraverso i suoi topoi) sono poi molto evidenti in “Fairy Tales”, opera commissionatale dalla rivista “Vanity Fair” nell’85.

Con le successive serie di fotografie, a partire dall’allucinata digressione quasi aniconica di Disasters (dove presenta immagini ributtanti di quelli che si scoprono esser cibi, ma sembrano i poveri resti di qualche tragedia), e attraverso l’asettico orrore in Sex Pictures (dove riassembla modelli anatomici che mimano la pornografia, in questo modo smitizzandola e denunciandone la natura fredda ed anonima, persino macabra), Sherman pare approdare infine ad una visione surreale della realtà e le sue ultime immagini (orrifici assemblaggi per lo più di vegetali dai quali sembrano scaturire bambole woodoo) hanno tutti i connotati di un certo bretoniano humor nero.

Gli spunti surreali hanno percorso sin dall’inizio la sua opera nella forma ora del dépaysage delle ambientazioni, ora di un pervasivo senso dell’onirico, ma acquistano infine un peso preponderante e sembrano spingere la figura della fotografa-protagonista dell’immagine in secondo piano. Gli oggetti invadono la scena e “arbitrariamente accostati”, danno vita ad una realtà grottesca, al limite del carnascialesco, e per questo la critica ha infine fatto ricorso a Bakthin ed ai sui studi su Rabelais, allo scopo di leggere in siffatti gruppi d’immagini il senso di un’epoca decadente presaga di un cambiamento epocale.

Ma l’autrice, nel miglior stile surrealista, ha sempre rifiutato di essere incasellata intellettualmente, pretendendo, anzi, di essere in realtà del tutto estranea alla cultura istituzionalizzata, della quale ha anzi voluto prendersi un po’ gioco, e di attingere, invece, a piene mani ad un più attuale immaginario collettivo mediatico pieno di riferimenti, sia pure “involgariti”, a codici più alti.

Le sue operazioni concettuali sono rivendicate, dunque, come proprie intuizioni personali, anche inscrivendosi perfettamente in un generalizzato clima culturale postmoderno, così che persino il ricorso alla citazione in “History Portraits”, serie che ricalca pedissequamente la ritrattistica classica, non sarebbe altro che il logico evolversi di un percorso da sempre basato sull’imitazione di ogni possibile linguaggio visuale, avendo tutti agli occhi di Sherman pari valore comunicativo.

BIOGRAFIA

Cindy Sherman nasce a Glen Ridge nel New Jersey, ultima di cinque figli, e cresce nella suburbana Long Island. Studia Arte presso la SUNY (State University of New York) a Buffalo, dove è ha come compagno di studi Robert Longo, artista la cui produzione si mostrerà in seguito affine alla sua per quanto riguarda lo spiccato interesse verso la cultura popolare dei mass media.

Respinta all’esame preliminare di fotografia, per insufficienze tecniche nella gestione delle fasi di stampa, Sherman si dedica dapprima alla pittura, dipingendo in maniera realistica copie di foto tratte da riviste, ed autoritratti. Ben presto, però, trasformerà la fotografia, da pretesto per le proprie indagini sulla comunicazione di massa, in mezzo d’autoespressione, nel quale far coesistere le aspirazioni da artista concettuale con le proprie ossessioni personali.

Così più tardi confesserà: “Quando andavo a scuola stavo cominciando a essere disgustata dalla considerazione religiosa e sacrale dell’arte, e volevo fare qualcosa … che chiunque per strada potesse apprezzare… Ecco perché volevo imitare qualcosa di appartenente alla cultura, e nel contempo prendermi gioco di quella stessa cultura. Quando non ero al lavoro ero così ossessionata dal cambiare la mia identità che lo facevo anche senza predisporre prima la macchina fotografica, e anche se non c’era nessuno a guardarmi, per andare in giro”.

Nel 1975, mentre frequenta ancora il College, scatta la prima delle sue Serie, composta da cinque fotografie, contrassegnate dalle lettere che vanno da A ad E, le quali ritraggono l’autrice stessa nelle vesti di differenti personaggi, quali un clown o una bimba. Si laurea nel 1976.

L’anno seguente Sherman si trasferisce a New York. Là, dopo un breve periodo che la vede impegnata nella produzione di collage fotografici, inizia a lavorare su quella serie d’immagini in bianco e nero che la renderanno poi celebre in tutto il mondo: “Untitled Film Stills”.

La sua prima personale avrà luogo nel 1981 presso una galleria newyorkese non commerciale, chiamata Kitchen.
Da allora lavorerà freneticamente, continuando a produrre serie di fotografie senza titolo, delle quali è immancabilmente soggetto, interprete dei più disparati ruoli.

Verso la seconda metà degli anni Ottanta sperimenta un tipo di composizione figurativa in cui la propria figura passa in secondo piano, adombrata dall’incombente presenza di un mondo inanimato, per poi tornare alla centralità dell’essere umano in un acuto studio della più classica ritrattistica pittorica.
Fra il 1983 e il 1994 esegue su commissione alcuni bizzarri lavori di moda.

Nota sin dai suoi esordi all’ambiente artistico ed intellettuale, spesso diviso nell’apprezzamento per le sue operazioni concettuali, Cindy Sherman riceve il primo vero riconoscimento da parte dell’establishment artistico solo nel 1995, allorché il MOMA di New York acquista per oltre un milione di dollari le sessantanove fotografie di “Untitled Film Stills”.

La definitiva consacrazione ad una più vasta notorietà avverrà, però, solo due anni dopo, quando il citato museo esporrà la serie acquistata in una clamorosa mostra, avente fra gli sponsor la cantante Madonna.

Da sempre interessata al linguaggio cinematografico, nel quale ha ravvisato spesso le espressioni più tipiche dell’immaginario comune alla nostra epoca, Sherman decide infine di cimentarsi in prima persona anche con questo linguaggio artistico: dirige, così, “Office Killer”, commedia horror che alla sua uscita, nel 97, viene accolto favorevolmente dalla critica, ma tiepidamente dal pubblico.

Sherman vive e opera ancora a New York, dedita negli ultimi anni ad una produzione d’immagini altamente influenzate dal Surrealismo.

© CultFrame 02/2003


BIBLIOGRAFIA

Bronfen, E. et al., Cindy Sherman: Photographic Works 1975-1995, Schirmer/Mosel Verlag Gmbh, 2002
Morris, C., The Cindy Sherman, Harry N. Abrams Inc., 2001
Williams, E., Early Work of Cindy Sherman, Glen Horowitz Bookseller, 2001
Cruz, A., Jones, A., Cindy Sherman: Retrospective, Thames and Hudson, 2000
Sills, L., Real Life: Six women Photographers, Holiday House Inc., 2000
Rice, S., Inverted Odysseys: Claude Cahun, Maya Deren, Cindy Sherman, MIT Press, 1999
Atwood, J. E., Nachtwey, J., Sherman, C., Dark Days: Mystery, Murder, Mayhem, Aperture, 1997
Van Gravel, B., Foster, H., Cindy Sherman, Boymans van Beuningen, 1996
Krauss, R., Bryson, N., Cindy Sherman 1975-1983, Rizzoli International Publications, 1993
Rush, K., Aperture. Fiction and Metaphor, Vol. 103, Aperture, 1990
Danto, A. C., Cindy Sherman: Untitled Film Stills, Rizzoli International Publications Inc., 1990
Rogers-Lafferty, S., Jenny Holzer and Cindy Sherman: Personae, Contemporary Arts Center, 1986

SUL WEB
La mostra allestita presso il museo nel 1997 in cui sono state presentate 69 immagini (14 nel sito) della serie Untitled Film Stills, oggi parte della collezione del museo
Quattordici delle 69 immagini della serie Untitled acquistate dal MOMA di New York

0 Shares: